Mauro Valentini

Scrittore & Giornalista

Giuliana Perrotta è il nuovo Commissario Straordinario per le persone scomparse

Il nuovo commissario straordinario per il fenomeno delle persone scomparse è Giuliana Perrotta. Succede a Mario Papa, diventato capo segreteria del dipartimento di pubblica sicurezza. L’avvicendamento è stato deciso dal Consiglio dei Ministri.

Nata a Campobasso, Giuliana Perrotta è entrata al ministero dell’Interno nel 1981 e ha ricoperto numerosi incarichi. Commissario prefettizio in numerosi Comuni di Campania, Calabria e Puglia, nel 2008 fu nominata prefetto, incarico che ha svolto a Enna, a Lecce e Cagliari. Da maggio 2017 era a capo dell’Ispettorato generale dell’amministrazione a Roma.

Il Commissario straordinario del governo per le persone scomparse è stato istituito nel 2007, esso è delegato tra le altre cose ai rapporti con i familiari degli scomparsi e con le associazioni più rappresentative a livello nazionale, come PENELOPE ITALIA ONLUS.

Ecco il saluto della nuova Prefetto ai familiari e alle loro associazioni (dal sito del Ministero dell’Interno)

Giuliana Perrotta

“Nell’assumere da oggi il delicato incarico di Commissario per le persone scomparse, desidero rivolgere il mio primo pensiero ed affettuoso saluto ai familiari e alle loro associazioni, che spero di incontrare presto per assicurare loro, in continuità con quanto fatto sensibilmente dai miei predecessori, la vicinanza ed il sostegno dell’Ufficio.

I risultati eccellenti sinora raggiunti nelle ricerche, l’interesse manifestato dalla opinione pubblica e dai media, anche internazionali, mi spingono a intensificare ancor di più la collaborazione con i prefetti, le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie nella consapevolezza che la scomparsa è un fenomeno sociale e non è destinato a cessare.

Le iniziative che intraprenderò saranno, dunque, rivolte a introdurre meccanismi di prevenzione e conoscenza del problema, anche perché sono tante le scomparse di genere e quelle dei minori, soprattutto stranieri non accompagnati.

Per fronteggiare la situazione ritengo, pertanto, doveroso prospettare nelle competenti sedi istituzionali la questione della rideterminazione della dotazione organica della struttura organizzativa commissariale per adeguarla alle mutate e gravose esigenze di coordinamento operativo”.

E noi, le auguriamo  buon lavoro dottoressa Perrotta. C’è tanto da fare perché tante sono le famiglie cha attendono una soluzione.

Mauro Valentini

Logo Penelope Italia Onlus

 

#FridaysForFuture – La versione di Lorenzo

La manifestazione per il clima ha acceso le speranze dei giovani di tutto il mondo. Nel nome di Greta Thumberg per fermare il riscaldamento globale. La parola ora deve passare a loro

Un Venerdì 15 marzo che passerà alla storia. Una manifestazione contro un mondo governato da politiche che rimandano, sottovalutano e addirittura negano cosa stia accadendo al clima della Terra.

Greta

Tutto ha inizio questa estate quando Greta Thumberg, una studentessa svedese di 16 anni, ora diventata il simbolo e la rappresentante più conosciuta del nuovo movimento ambientalista studentesco, decise di non presentarsi più a scuola per venti giorni consecutivi, fino al 9 settembre 2018, giorno delle elezioni politiche svedesi, manifestando in solitaria davanti al parlamento per chiedere di occuparsi più seriamente del cambiamento climatico. Il resto, lo ha fatto la rete, il coinvolgimento degli studenti di cento paesi nel mondo. Un tam tam digitale e relazionale. Una marea che si è mossa all’alba di questo venerdì per chiedere a gran voce una cosa che sembra quasi un paradosso: Salvare il clima. Salvare il futuro.

1.700 città, comprese le città di nazioni tra le più inquinate al mondo come l’India, la Cina, la Russia e paesi dell’America Latina. In Italia e Francia la mobilitazione più grande. A Roma il corteo è partito dal Colosseo e ha percorso via dei Fori imperiali, arrivando a fianco dell’Altare della Patria, dove hanno parlato tutti ragazzi, tranne il geologo Mario Tozzi, che ha ricordato quali sono i dati che terrorizzano e giustamente le nuove generazioni:

Il 2018 è stato il quarto anno più caldo mai registrato da sempre, a conferma di quanto dicono, e hanno dimostrato, ormai da tempo i ricercatori: la Terra si sta scaldando! Gli ultimi 5 anni sono stati i più caldi mai registrati nella storia, e 18 dei 19 più caldi si sono verificati a partire dal 2001.

Chi sono e cosa pretendono questi giovani, questa marea colorata e decisa a farsi sentire dai governi di tutte le nazioni? Questo milione di studenti italiani che ha sfilato in ogni città dove vuole arrivare? Noi lo abbiamo chiesto a uno di loro, Lorenzo Campanella, rappresentante di istituto al Liceo Ginnasio Francesco Vivona di Roma. Diciotto anni e lo sguardo rivolto al futuro. Alla pretesa di un futuro migliore.

« Purtroppo del clima non si parla mai a scuola. Eppure questa è una questione essenziale. Credo servirebbe un percorso di educazione alla cittadinanza da affiancare alla regolare didattica ma è un tema che non viene dagli insegnanti. Alcuni degli studenti più interessati si sono fatti promotori di questa organizzazione e in generale hanno sottolineato questa problematica rendendola nota a tutti. Nella nostra scuola questo è il secondo anno che, come studenti, organizziamo una giornata Ecologica per la sensibilizzazione e per la partecipazione attiva nel piccolo contesto scolastico. E la manifestazione di venerdì è stata fondamentale per fare un passo in avanti.»

Cosa chiedete ai potenti del mondo e cosa occorre secondo te?

«I problemi ambientali sono noti da anni, oggi non chiedevamo di cercare delle soluzioni ma di applicare le soluzioni che sono note da anni. Indubbiamente mettere in atto questi cambiamenti comporterebbe un impegno maggiore sia a livello economico che organizzativo per le aziende, ma senza questi accorgimenti nel giro di pochi decenni ci ritroveremmo in un mondo invivibile. Non bisogna azzerare il progresso o distruggere le industrie ma rendere sostenibile la loro crescita e garantire che le regole in ambito climatico-ambientale siano rispettate.»

Dove vuole arrivare questo movimento appena nato, e cosa speri per il pianeta nei prossimi dieci anni, quelli che, a dirla con le parole di Mario Tozzi, saranno quelli decisivi?

Roma venerdì 15 marzo 2019

«La mobilizzazione c’è stata, non solo adesso ma va avanti da tempo e penso che continuerà ad esserci. Esistono accordi internazionali, proposte popolari e di alcune organizzazioni, è giunta l’ora di applicarli. Ma la manifestazione di venerdì non avrà alcun senso se non ne seguiranno degli interventi effettivi.
Perché… Non abbiamo altra scelta! Dobbiamo agire proprio nei prossimi dieci anni, è l’ultima occasione che abbiamo. Il pianeta non si salva in piazza, si salva con delle leggi a tutela dell’ambiente a livello globale. Noi abbiamo voluto far capire che questa è una priorità e che queste regolamentazioni devono essere applicate al più presto.»

Fare presto. E fare bene, perché, come scriveva già cinquant’anni fa il precursore del pensiero ecologista, lo scienziato David Brower: “Non ereditiamo la Terra dai nostri padri: la prendiamo in prestito dai nostri figli”

Mauro Valentini

Ascolta Greta Thumberg 

Greta Thumberg per Fridays For Future

Si torna a parlare di Antonella Di Veroli. Ma occorre fare qualche precisazione

Un articolo de Il Corriere della Sera riapre la discussione sul misterioso caso del delitto di via Domenico Oliva

Quando l’editore Sovera mi chiese di scrivere un libro-inchiesta e di scegliermi un caso irrisolto per il mio esordio letterario, io non ebbi il benché minimo dubbio. Pensai immediatamente ad Antonella.

Antonella Di Veroli.

Antonella

Una vicenda tra le tante che hanno colorato di rosso e di nero Roma negli anni 90, che però mi aveva lasciato una malinconica sensazione di impotenza. Quella storia, la storia di questa donna dal carattere forte e fragile allo stesso tempo, uccisa in casa e a cui mai era stata fatta giustizia meritava di esser raccontata. E soprattutto andava fatta chiarezza se non riguardo la sua morte, almeno sulla vita di Antonella, uccisa il 10 aprile del 1994 e poi uccisa dal vociare indegno e senza cuore di una stampa che ha cercato in tutti i modi di renderla in qualche modo “complice” della sua morte. Già perché senza troppi veli e giri di parole la si accusò di esser una donna che si accompagnava a uomini sposati. Una donna che a 47 anni ancora non si era creata una famiglia e che quindi in qualche modo “se l’era cercata”.

Mi offre l’occasione per riparlare del “Delitto della donna nell’armadio” un articolo del Corriere della Sera molto dettagliato e che ripercorre le tappe di questa terribile vicenda, offrendo spunti di riflessione su possibili nuovi scenari investigativi, a quasi 25 anni dall’omicidio.

Rileggendo il lungo articolo diviso in più tappe, qualche precisazione occorre però farla, perché se questa storia è purtroppo diventata una storia sbagliata, un caso irrisolto, lo si deve soprattutto ai dettagli, confusi e mai chiariti e che hanno di fatto reso impossibile (finora) la scoperta del colpevole.

Un colpevole che, questa la mia convinzione che ho espresso con forza nel mio libro “40 passi – L’omicidio di Antonella Di Veroli” non può che esser qualcuno della cerchia ristretta, molto ristretta delle frequentazioni di Antonella.

i due fori della pistola che ha colpito Antonella (foto dagli atti del processo)

Perché Antonella (questo è appurato) riceve in pigiama colui (o colei) che la ucciderà qualche minuto dopo esser stato accolto.

Un pigiama, quello di Antonella, di quelli dozzinali, non certo eleganti, che lasciano chiaramente intuire fin da subito che chi ha ucciso ha familiarità con quella casa. E con quella donna.

Una familiarità che, a dirla tutta, forse in quattro, cinque potevano permettersi. Perché Antonella era riservata, gelosa delle sue cose. Impossibile pensare a una sua leggerezza notturna e a una apertura della porta a chicchessia. Chi l’ha uccisa la conosceva bene. Troppo bene.

Si diceva della necessità di alcune precisazione rispetto al pezzo del Corriere.

  • La prima è sul come è stata chiusa l’anta di quel maledetto armadio che si è portato via il respiro di Antonella. Si legge nell’articolo infatti che l’assassino è stato “previdente” nell’utilizzo della colla, ipotizzando quindi che l’assassino se la sia portata dietro, premeditando l’omicidio e anche l’occultamento. Ma non è così. E la dinamica spiega che non può esser così. Perché sappiamo benissimo dagli atti (pubblico anche la foto originale del reperto) che quella non era colla bensì uno stucco di proprietà di Antonella, quindi era in casa. Uno stucco che serviva a riparare qualche graffio sul bellissimo parquet di legno chiaro che si era fatta istallare da pochi mesi. Chi l’ha uccisa non aveva nessuna intenzione di farlo. Sono volate parole grosse forse, oppure qualche documento che Antonella non voleva riconsegnare? O che altro può aver acceso la discussione fino al tragico epilogo?
  • Il tubetto di stucco trovato in casa di Antonella (foto dagli atti del processo)

    Sempre su Il Corriere si parla di “odore di morte” che avrebbe consentito di trovare la povera Antonella. Ritrovata, va ricordato, dalla sorella Carla, dal cognato Giuseppe e da uno degli indagati: Umberto Nardinocchi, onnipresente in tutte le fasi della ricerca. Ebbene, questo odore non c’era. Ce lo dice nientedimeno che il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Talenti, Salvatore Veltri, arrivato immediatamente dopo la scoperta del corpo. Egli mi dice in una intervista riportata nel libro che: “non c’erano odori ne di colla ne di morte in quella casa”, Quindi, chi ha aperto l’armadio (proprio Umberto Nardinocchi) non lo ha fatto richiamato dall’odore, ma da altro. Da una sua intuizione? Una strana intuizione.

  • Nella ricostruzione si fa cenno a un acquisto di una bottiglia di Berlucchi da parte di Antonella quella notte in cui tutto accadde. Ma questa circostanza era stata già cancellata dalle ipotesi durante il processo e anche Carlo Lucarelli nel suo Blu Notte dedicato al caso, aveva fatto un esperimento sul posto escludendo tale ipotesi. Io ho scritto nel mio libro un capitolo a riguardo, dove tra l’altro spiego:

“I due gestori del “ Lucky Bar” di via Nomentana che si trova adiacente alla zona di Talenti dove viveva ed è morta Antonella si presentano spontaneamente ai Carabinieri e raccontano che la notte del 10 Aprile, poco prima dell’orario di chiusura una donna elegante d’aspetto è entrata per acquistare una bottiglia di spumante di una marca importante. I due gestori del bar ne sono sicurissimi, è Antonella Di Veroli la donna ben vestita che ha comprato quella bottiglia.

“Che ore erano?” chiedono i Carabinieri: “ erano circa le 23:00”.

La copertina del mio libro: 40 passi – L’omicidio di Antonella Di Veroli

La squadra investigativa scientifica dei Carabinieri rientra per un ulteriore controllo nell’appartamento, vogliono trovare riscontro di quella bottiglia. […[ Cercano anche nei cestini intorno via Domenico Oliva e nella zona, qualora chi fosse uscito se la fosse portata via insieme alla pistola ma non c’è traccia di quella bottiglia di spumante. Eppure sarebbe un elemento importante perché segnerebbe una svolta almeno nella dinamica dell’omicidio.

Certo una svolta alquanto difficile da ipotizzare: Antonella sarebbe dunque andata a piedi percorrendo più di un km nelle strade buie e deserte di quella domenica sera piovigginosa a comprare questa bottiglia, oppure più presumibilmente accompagnata da qualcuno perché la sua A112 non si è mossa dal garage dove era stata parcheggiata la sera stessa. Sarebbe tornata, a piedi o con il suo accompagnatore, salita in casa, spogliata messa il pigiama per poi subire l’aggressione fatale dal suo assassino che a questo punto deve esser per forza quello che l’ha accompagnata al bar, visto che dall’avvistamento al Lucky Bar alla morte di Antonella secondo quanto scritto dalla relazione medico legale non sarebbe passata più di un’ora.

Come è strana questa circostanza, molto strana, ma in mancanza di nessun altro appiglio investigativo la testimonianza viene verbalizzata e tenuta in seria considerazione.

Manca però una prova, un riscontro certo di questo passaggio di Antonella, che i due del bar ribadiscono aver riconosciuto soltanto dalla foto sul Messaggero del 13 Aprile e di non aver mai visto prima di quella notte.

Insomma, manca lo scontrino.

Lo cercano in casa di Antonella, nelle sue borse che si trovano in casa ma non lo trovano; allora gli uomini del nucleo investigativo si presentano al Lucky bar per farsi consegnare la matrice dello scontrino del 10 Aprile 1994. Ma con stupore i due baristi affermano che tale matrice è stata da loro consegnata a dei militari in borghese che si sono presentati qualche giorno prima. ( Nota: Corriere della Sera 18 Gennaio 97).

La matrice non c’è, non si troverà mai. Non vi è traccia di altri militari che hanno preso questa iniziativa, non ci sono verbali di sequestro ne di indagine a tal proposito, i due baristi non hanno la ricevuta del sequestro ne tantomeno prova che questo sequestro sia stato fatto.

Lo scontrino della bottiglia di spumante venduta il 10 Aprile 94 dal Lucky Bar per ben 30 mila lire non si troverà più, semmai sia mai esistito uno scontrino.

Il Lucky bar uscirà ben presto di scena nell’imbarazzo generale tra matrici perdute e dichiarazioni contraddittorie, la dinamica di quella sera in cui due colpi di pistola e una busta di plastica si sono portati via la vita di Antonella anche se appare poco chiara non ha spazio per questa deviazione notturna verso il Lucky Bar, troppo fuori mano per ogni ricostruzione possibile dei fatti.

Un mistero che forse non è un mistero ma solo uno scambio di persona”

  • C’è poi infine, un termine che non può non aver disturbato chi ancora ha nel cuore Antonella: si scrive all’inizio del racconto che proprio Antonella si fosse “incapricciata” di Vittorio Biffani. Il disagio per questa definizione pensavo fosse solo mio, ma non è così. Cosa voleva dire il cronista che lo ha scritto? Per questo ho consultato il Vocabolario della Treccani che, in riferimento al termine così lo descrive: “Lasciarsi prendere da un capriccio, da un desiderio ostinato e per lo più non durevole”.   Ma Antonella per quell’uomo aveva un sentimento molto più grande di questo, un sentimento non certo banale. Aveva perso il suo controllo consueto delle cose della sua vita, si era addirittura spinta a dar prestiti e a vagheggiare una vita possibile insieme. Quando Vittorio chiuderà questa storia, Antonella ricorrerà disperata d’amore anche a delle cartomanti e a dei cialtroni che approfittarono della sua disperazione (altro che capriccio) per toglierle dei soldi e illuderla. No, Antonella di Vittorio era innamorata. E forse lo era ancora, il giorno della sua morte.

Ospite insieme alla sorella Carla e al cognato Giuseppe di Rai Due

Io ho cercato di raccontare solo la donna Antonella, donna forte e fragile allo stesso tempo, colpita a morte prima dalle delusioni di una vita che stentava a regalarle tenerezza e amore e poi da una mano senza pietà che le ha sparato e l’ha gettata come una cosa dentro quell’armadio.

L’abbraccio della sorella Carla, indomita con il marito Giuseppe nella ricerca della verità è stato per me il momento più commovente di questa mia avventura letteraria. Così come le parole del vicino di casa, che incontrandomi a una presentazione del mio libro mi disse: «Grazie per quello che ha fatto. Lei ha tirato fuori dopo venti anni la signora Di Veroli da quell’armadio, dove gli inquirenti l’hanno dimenticata

La verità, Antonella. Meriti che qualcuno dica qual è la (tua) verità.

Mauro Valentini

Gli ultimi 40 passi di Antonella (foto dell’autore)

 

 

A Villa Francesca (Pomezia) parlando di Mirella Gregori – Ecco il video

Si è svolta domenica 3 marzo a Pomezia l’incontro presentazione del libro “Mirella Gregori – Cronaca di una scomparsa”.

Nella meravigliosa location di Villa Francesca, che ha ospitato con la consueta eleganza la manifestazione, si è parlato del destino di Mirella e della possibilità di una riapertura di quell’indagine che non è mai partita veramente.

Con l’autore del libro, hanno partecipato Antonietta Gregori, sorella di Mirella, e il duo musicale formato da Marco Abbondanzieri e Rodolfo Cubeta.

Per gentile concessione di Regioni in rete ecco il video commento all’incontro realizzato da Giulia Presciutti.

 

Giulio Regeni aveva ragione…

Il suo mistero è scritto dentro un quaderno scomparso?

É di questi giorni l’incontro bilaterale Italia-Egitto, da parte del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «L’incontro Con il presidente Abdel Fattah Al Sisi, sebbene abbia “l’agenda sia molto serrata, troverà un modo di confrontarci (sul caso) e trasmetterò le premure del governo italiano e dell’Italia” sul caso Regeni» come ha specificato il Presidente Conte ai microfoni del cronista de Il Fatto Quotidiano

Giulio Regeni. il ricercatore italiano che, partito da Cambridge dove studiava è stato ritrovato ucciso a Il Cairo. Come è noto, Giulio fu rapito il 25 gennaio del 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di Piazza Tahir e il suo corpo rinvenuto senza vita il 3 febbraio successivo, nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti, orrendamente torturato in un fosso lungo l’autostrada che porta a Il Cairo da Alessandria.

Quali possano essere i motivi di tanta ferocia da parte di possibili apparati oscuri e violenti del governo egiziano non è dato saperlo, tantomeno qualcuno ancora lo ha chiesto ai massimi livelli del paese…

Eppure la pista c’è già, aldilà del ruolo della professoressa Abdelrahman , tutor del ragazzo italiano a Cambridge, che forse, intercettata nelle sue conversazioni, ha generato  la scintilla di questo massacro. Quale ruolo ha avuto la tutor non è ancora chiaro, eppure piano piano,  la verità sull’omicidio di Giulio Regeni sta uscendo fuori.  Certamente grazie alla meravigliosa opera di giornalisti coraggiosi più che per merito delle autorità egiziane, mostratisi spesso in questi lunghi mesi reticenti nelle loro spiegazioni da riuscire ad irritare pure un politico pacato come l’allora ministro Gentiloni, e convinto il Presidente della Camera Roberto Fico a rompere le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano.

Il Presidente della Camera Roberto Fico

La pista è da allora come adesso la stessa: l’opera di inchiesta e di raccolta dati che Giulio stava elaborando sull’oscura funzione del sindacato dei venditori ambulanti ostili al capo del governo insediato nel 2014.

«Faceva domande strane» dicono in tanti, ecco quello che ha condannato a morte Giulio. Lo ha detto anche e soprattutto, con grande vanto ora, che evidentemente ha concordato per bene quello che aveva da dire, tale Mohamed Abdallah, capo indiscusso (e non eletto) del sindacato dei venditori ambulanti de Il Cairo.

«Faceva domande sulla sicurezza nazionale» ecco la sua colpa. Ed ecco perché questo signore che si è palesato dopo 11 mesi dai fatti e che con orgoglio (proprio così, dice “con orgoglio”) ha dichiarato di aver segnalato e portato Giulio con una trappola nelle mani dei servizi segreti del suo paese. Faceva domande tutt’altro che strane Giulio, per la sua ricerca – inchiesta; faceva le sue domande sul brulicante che governa quel mondo del commercio su strada.

«Ogni buon egiziano lo avrebbe fatto»  ha dichiarato oltre tutto ad alcuni giornali italiani questo signore. Certamente si sarà sentito un buon egiziano, come quelli che hanno preso in consegna il ricercatore italiano, lo hanno torturato prima di ucciderlo come neanche nelle prigioni di via Tasso i nazisti avevano osato fare.

Torturato per sapere cosa? Questo è il vero mistero, questo gli inquirenti italiani vogliono scoprire da allora e senza successo i nostri inquirenti.

Giulio può esser solo una vittima tra le tante del “nuovo corso” del governo egiziano, tanti sono gli scomparsi e tante sono le torture che hanno subito i detenuti che hanno poi avuto la fortuna di raccontare, perché sopravvissuti con coraggio e in forma anonima. Coraggio che Giulio Regeni avrebbe avuto, ecco forse il motivo della sua morte.

E poi c’è l’elemento più inquietante, un elemento che manca: il quaderno di appunti di Giulio. Quello non si trova più. Svanito insieme alla sua giovane vita.

Il mistero dunque era dentro il quadernetto di Giulio?

Certo, una verità, almeno una, c’era scritta tra quegli appunti che hanno di fatto, ormai sembra certo segnato la sua condanna a morte. Possiamo dirlo con certezza perché almeno una parte degli appunti del ricercatore ci è arrivata sana e salva: Giulio annota di aver incontrato tre volte Abdallah, anche se lo stesso Abdallah asserisce di averlo incontrato in sei occasioni (meglio abbondare si sarà detto per avvalorare l’ipotesi) e tra quelle note Giulio lo definisce come “una miseria umana”. Ecco il pensiero di Giulio. Poche parole ma definitive, Lui lo aveva classificato semplicemente così.

E almeno su questo Giulio aveva ragione.

Mauro Valentini

Daniele Potenzoni – Quella scomparsa senza un colpevole (per ora…)

Una lettera aperta di papà Francesco al figlio, pubblicata attraverso il sito v-news.it tiene viva l’attenzione sul caso, alla vigilia della pubblicazione delle motivazioni della sentenza di primo grado, che aveva stabilito che la colpa della scomparsa non era di nessuno

Era il 10 giugno del 2015, Daniele, che ha un disturbo mentale grave e che per questo deve esser seguito a vista, scende le scale mobili che lo conducono alla fermata di Termini della Linea A di Roma. Lui a Roma non c’è mai stato, ma questo conta poco. Il professionista che lo ha in affidamento è l’infermiere Massimiliano Sfondrini, dell’Ospedale di Melegnano che, con gli altri colleghi ognuno dei quali ha la responsabilità di un assistito, si tuffano nella bolgia infernale dell’ora di punta di quella fermata. Il gruppo ha un’esitazione, decidono prima di salire, poi, visto che non riuscivano a salire tutti insieme Sfondrini riscende e nel farlo non riesce a portar fuori dal vagone strapieno Daniele. Le porte si chiudono e il treno parte, portando Daniele in un buco nero e senza scampo. Daniele si perde per sempre.

 

La linea A di Roma

Ma papà Francesco, non si vuole arrendere all’assurdo, a una scomparsa che ha dell’incredibile se si pensa che essa è maturata dentro una metropolitana tra le più affollate.

Il processo di primo grado ha sancito poche settimane fa che Sfondrini non ha avuto una condotta colpevole. «Sono allibito, si stabilisce un precedente pericolosissimo, e cioè che la negligenza verso persone indifese come mio figlio non è una colpa.» Francesco ha ragione, non si può relegare a incidente di percorso un evento come questo, ma al di là delle considerazioni penali, ci si chiede come sia stato possibile perdersi un ragazzo con quella disabilità, che non può che esser uscito dal treno a una delle fermate successive.

Abbiamo provato a percorrere quell’ipotetico percorso alla stessa ora: La fermata Repubblica che è quella immediatamente successiva, in genere continua a far salire persone, pigiandosi addosso alle tante già presenti e provenienti da Termini, dove è salito Daniele. Appare complicato che sia riuscito a uscire lì. E allora, potrebbe esser stato spinto dall’onda che si crea alle fermate di Barberini e Spagna. Oppure esser rimasto ancorato e smarrito ai sostegni del treno e esser sceso alla fine del percorso, al capolinea alla fermata Battistini. Ma poi da lì cosa può mai aver fatto? Sono state perlustrate tutte le gallerie tra quelle fermate, ma senza esito. Il mistero sta anche nel fatto che nessuna telecamera lo riprende uscire da una delle fermate successive. Ma se è rimasto sotto, qualcuno lo avrebbe trovato.

Dicevamo della lettera, una missiva affidata da Francesco al sito www.V-news.it scritta al figlio ma anche a tutti quelli che avrebbero potuto evitare una tragedia come questa e non hanno fatto nulla. È soprattutto il comportamento degli infermieri in tutta quella maledetta giornata in cui Daniele si è perso, che sarà sicuramente rianalizzato nel processo di secondo grado.  

una lettera piena di rammarico e di disarmante tenerezza.

“Ciao caro figlio mio Daniele ti scrivo queste parole per dirti che questa notte ti ho sognato sono stati dei momenti bellissimi ma purtroppo e stato solo un sogno perché per un uomo senza cuore che un giorno ti ha portato a vedere il Santo Padre ti ha perso in quella metro di Roma e poi se ne fregato di te e di noi che ci hanno lasciati nella disperazione totale ma se tu puoi leggere questo messaggio fatti aiutare a farti venire tra di noi. Noi tutti insieme ti cercheremo sempre non ci fermiamo fino che non ti troveremo tuo padre vuole la verità”.

La famiglia Potenzoni è assistita nel percorso che porta alla verità dall’avvocato Gennaro Galadeta, attraverso l’associazione Penelope Italia Onlus, che, fatto unico in un processo non per omicidio, è stata in primo grado riconosciuta nella costituzione di parte civile. Perché nessuno vuole rassegnarsi a una sorte così dolorosa, certamente non si rassegnerà Penelope, tantomeno papà Francesco.

Mauro Valentini

 

La svolta nel delitto di Arce e quel libro di Pino Nazio…

«Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore. poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire . Come per Stefano Cucchi…

si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo. Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere».

Guglielmo Mollicone stavolta vede la fine del tunnel. Al collega Fulvio Fiano de “Il Corriere della Sera” del 19 febbraio, ha raccontato tutta la sua rabbia ma anche e soprattutto la sua speranza. Speranza che si apra finalmente uno squarcio di verità sulla sorte della figlia Serena, morta a Arce il primo di giugno del 2001 in circostanze che ormai sono chiare, almeno secondo i RIS che hanno consegnato una relazione alla Procura di Cassino che sembra già una sentenza.

Serena Molicone

Per quello che trapela da quella relazione infatti, appare chiaro che Serena è stata colpita a morte nella caserma dei Carabinieri di Arce. E tutto lascia presupporre che per il comandante della Stazione di allora Franco Mottola e per la sua famiglia inizierà un periodo difficile. Molto difficile.

Le tante tracce esaminate per giorni con microscopi di ultima generazione, le comparazioni scientifiche per rintracciare una «coerenza dei materiali» (così è detto nella relazione) rendono infatti un quadro schiacciante che porta dritti a una soluzione che è quella paventata e urlata per diciotto anni da Guglielmo: Serena per lui è morta in caserma, anzi, nella casa del comandante della Stazione e poi è stata portata legata e chiusa in una busta di plastica al bosco di Fonte Cupa (oggi Fonte Serena).

Chi si è occupato del caso Mollicone e ne ha scritto anche un libro è il giornalista della Rai Pino Nazio, che oggi sul suoi profilo Facebook ha voluto riportare alcuni passi del libro: Il mistero del bosco. L’incredibile storia del delitto di Arce (Sovera edizioni 2013).

Passi che in effetti chiarivano fin da subito alcuni passaggi investigativi che soltanto ora riportano i RIS.

Era tutto così chiaro eppure…

Pino Nazio

Scrive Nazio: “Finalmente siamo vicini a un nuovo processo per la morte di Serena Mollicone. Alla verità no, quella è stata urlata da anni dal papà Guglielmo e l’ho descritta nel mio libro del 2013. Mi sono andato a rileggere alcuni passaggi del libro e c’è dentro tutto quello che si sta verificando in questi giorni….”

Ed ecco alcuni passaggi fondamentali del suo libro:

[…]
Quando la parte più lunga della notte era già trascorsa, Guglielmo rientrò a casa in preda allo sconforto e trovò una strana sorpresa: ad aspettarlo davanti casa non c’era la figlia, come durante

quelle interminabili ore aveva pregato che avvenisse, ma il maresciallo Mottola.

Frastornato dall’insolita apparizione, non trovò irrealistica la richiesta dell’uomo di entrare in casa e perquisire la stanza di Serena, alla ricerca di elementi utili.

Tutte le denunce di scomparsa non vengono approfondite dalle forze dell’ordine nelle prime ore; la stragrande maggioranza dei casi si risolvono nell’arco delle ventiquattro ore.

[…]

Il maresciallo Franco Mottola si dimostrò inspiegabilmente esagerato e noncurante delle regole, c’erano tante stranezze nel suo comportamento, ma cosa non era sembrato strano a Guglielmo in quella notte?
[…]

Il maresciallo Franco Mottola condusse l’interrogatorio, incurante del dolore dell’uomo e delle due nottate in bianco, appena trascorse.

Le domande erano sempre le stesse, ripetitive, ossessive, a cui Guglielmo rispondeva sempre nello stesso modo. A nulla valevano le suppliche di farlo tornare a casa, perché da un momento all’altro sarebbe rientrata Consuelo e non avrebbe trovato nessuno.

Solo alle quattro del mattino si riaprì il portone della caserma e Guglielmo poté tornare a casa.

Appena tornato a casa, Guglielmo andò ad aprire un cassetto, già aperto ore prima da Mario, senza che quest’ultimo vi avesse trovato nulla di interessante, fece una incredibile scoperta: qualcuno aveva messo lì dentro il telefono della ragazza.

Era tardi, il giorno dopo lo aspettava la durissima giornata dei funerali, lasciò sul tavolo il cellulare che aveva trovato e crollò sul letto quasi svenuto.

[…]
Le tracce di Serena si erano perse alle 9.35 di fronte alla fermata della corriera di Isola Liri, un successivo avvistamento la vole
va in compagnia di alcuni ragazzi al bar della Valle intorno alle 10. Era stata la dipendente del bar, Simonetta, a ricordare che Serena era scesa da una Lancia Y, lo stesso modello di automobile che aveva Marco Mottola, figlio del comandante della stazione dei carabinieri di Arce. Simonetta ricordava di averla vista entrare nel bar con il ragazzo per comprare delle Marlboro light, le stesse si
garette che fumava Serena.
[…]

Lungo la strada Serena avrà avuto un battibecco con Marco, il figlio del comandante della stazione o con qualcun altro, io non posso sapere chi c’era in quella macchina. Lei era indignata dal fatto che in paese girassero sostanze mortali, forse aveva paura che volessero darle anche al fidanzato, fare di lui un tossico”.

“Ti risulta che avvenissero cose simili?”, domanda Lucrezia. “In quel giro c’erano state altre volte delle liti, perché qualche spacciatore voleva avviare all’uso di droghe pesanti qualche ragazzo i cui parenti e amici si erano opposti, se ne è parlato anche al processo”.

“Quindi una discussione nata in macchina, una lite pesante,” cerca di riassumere Jacopo attento a non perdere il filo del discorso, “con Serena che minacciava di andare a dire tutto ai carabinieri?”.

“Sì. E l’altro, forte di qualche protezione altolocata, potrebbe averla sfidata, arrivando a proporle di portarcela lui stesso alla caserma dei carabinieri”.

“Proprio come aveva detto Santino Tuzzi, che quella mattina la aveva vista arrivare in caserma, dalla quale però non la vide più uscire ‘aggiunge Lucrezia’.

Mia figlia è stata inghiottita da quelle mura dove era andata per chiedere protezione, cercava giustizia, ha trovato una banda di assassini”.
[…]

Io credo di capire cosa sostenga Guglielmo, il papà di Serena, la molla che lo spinge ad andare avanti è la ricerca degli assassini, guardarli in faccia, vederli condannati. Quella è diventata la sua ragione di vita”.

Mauro Valentini

Edizioni Sovera

(brani tratti da: Il mistero del bosco. L’incredibile storia del delitto di Arce (Sovera edizioni 2013)

Fonte: Corriere della Sera ( https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/19_febbraio_20/serena-mollicone-l-ultima-perizia-incastra-famiglia-comandante-delitto-arce-88611766-3488-11e9-a0cc-9d1fdf09d884.shtml )

Padre Graziano – Attesa per il verdetto della Cassazione. Ma può aver fatto tutto da solo?

L’appuntamento per l’ultimo grado di giudizio per padre Graziano è fissato per il 20 febbraio 2019.

La Cassazione valuterà se le due sentenze di primo grado e d’appello sono congruenti e se per il destino di Guerrina Piscaglia si può chiudere qui. Il prete congolese è stato riconosciuto colpevole di omicidio e distruzione del cadavere in Corte d’Assise ad Arezzo e in Corte d’Appello d Firenze. 25 anni di reclusione, questa la condanna che dovrà passare al vaglio della Suprema Corte.  Per i giudici è stato lui. Il movente è chiaro per l’accusa e per le due Corti che hanno accolto il teorema accusatorio: la donna minacciava di rivelare particolari sui loro incontri ed era diventata ossessiva tanto da costituire una minaccia per la reputazione (e la gestione dei suoi movimenti molto particolari) del frate.

Epilogo quasi scontato, anche se il corpo della povera donna non è stato ancora trovato. Un fatto questo che aveva fatto ipotizzare una soluzione diversa, ma il quadro indiziario era così schiacciante da render quasi impossibile ogni ipotesi alternativa alla condanna.

La vicenda di Guerrina Piscaglia inizia il primo maggio del 2014, quando la donna allora 50enne scompare nel breve tragitto che intercorre tra la sua abitazione, dove vive con il figlio e il marito, e la canonica della chiesa di Ca’ Raffaello nel comune di Badia Tedalda (Arezzo). In quella canonica c’è Padre Graziano che l’aspetta, dato questo che si evince dall’ultimo messaggio scritto dalla donna al frate, inequivocabile nel testo esplicitamente riferito ad un appuntamento di natura sessuale.

Quello che inchioderà Gratien Alabì sarà proprio quel cellulare in uso a Guerrina, perché nei due mesi successivi partiranno vari messaggi a persone diverse, ricchi di frasi che avrebbero avuto il chiaro intento di far pensare ad una fuga d’amore della donna.

Ma quel cellulare si accenderà per due mesi sempre agganciando la cella dove è agganciato Padre Graziano e il primo messaggio che quel telefono invia, viene inviato ad un prete amico di Graziano ma che non era nella rubrica di Guerrina.

Per l’accusa questa è la pistola fumante, Graziano ha depistato le indagini e ha inviato per errore quel messaggio ad un suo amico invece che ad altra persona. Un depistaggio che in parte era anche riuscito, perché fino ad agosto dello stesso anno nessuno inspiegabilmente cerca la donna. I Carabinieri della locale stazione, secondo quello che afferma Mirko, il marito della donna, si sarebbero limitati ad un controllo di routine avvalorando di fatto la tesi dell’allontanamento volontario.

Ad agosto, però la svolta. L’avvocata Faggiotto, che cura in quel momento gli interessi della famiglia della scomparsa, scrive una lettera dettagliata a “Chi l’ha visto?”. L’inviato della trasmissione Giuseppe Pizzo arriva sul posto e non ci mette molto a comprendere, con poche verifiche e tante domande, che il racconto del frate presenta troppe incongruenze, accendendo definitivamente i riflettori su una vicenda che altrimenti sarebbe caduta nel dimenticatoio.

Incongruenze che ci sono però anche nel racconto del marito della vittima, che fino alla lettera dell’avvocata alla Redazione di Rai Tre, ha continuato ad avere con padre Graziano un rapporto molto stretto di amicizia e di frequentazione, una frequentazione che in effetti era fitta, molto fitta ad ascoltare i suoi racconti spesso al limite del surreale, anche prima della scomparsa della donna, nonostante Guerrina non sembrava far mistero della sua passione per quest’uomo di chiesa.

Ma è soprattutto nella spiegazione riguardo alle ore successive alla scomparsa fatta da Graziano che qualcosa da subito non torna. Guerrina scompare nel nulla appena dopo le 13:30, mentre suo marito Mirko sta lavando l’auto del frate nel cortile della loro casa. Quella macchina che Mirko l’aveva presa poche ore prima dalla canonica. Un’ora dopo l’ultimo saluto alla moglie, Mirko racconta di esser di nuovo in chiesa per prendere Padre Graziano in quanto lo deve accompagnare a celebrare una messa in un paese non molto lontano.

Sembra una partenza in perfetto orario ma all’appuntamento in chiesa i due arrivano con diversi minuti di ritardo. Successivamente lo stesso marito dichiarerà che il ritardo di quel pomeriggio era dovuto al fatto che erano tornati indietro per prendere un libro necessario al frate congolese per celebrare la funzione, ma certo è che se si da per vera la ricostruzione dell’accusa premiata in pieno dai giudici di primo e di secondo grado) Guerrina a quell’ora è stata già uccisa proprio in quella canonica e questo ritardo e questo tergiversare di Graziano con il marito della donna la attorno è quantomeno singolare.

E poi c’è quel racconto sempre fatto da padre Graziano, dell’incontro con il fantomatico zio Francesco, sempre il giorno della scomparsa. Un racconto che fa acqua da tutte le parti, quello dell’imputato, che racconta (ma soltanto quando gli inquirenti lo hanno ormai messo nel mirino delle indagini) di una Guerrina che è in auto con quest’uomo che nessuno conosce e nessuno ha mai visto prima e dopo quel giorno, chiedendo soldi e aiuto perché voleva scappare e non tornare più a casa.

Ma a casa Guerrina ha un figlio disabile che lo aspetta. Un figlio che l’ha aspettata per due anni e mezzo, un ragazzo da cui Guerrina non si sarebbe mai staccata così senza un cenno.

Guerrina è stata uccisa quindi da padre Graziano, ma è davvero difficile non pensare ad una correità di qualcuno lì in canonica tra i frequentatori e gli amici di Graziano, almeno nell’occultamento del cadavere della donna.

questa triste vicenda non può avere solo un colpevole.

Il marito di Guerrina Mirko Alessandrini si è costituito parte civile. Come l’associazione Penelope che si occupa di persone scomparse. Dopo la sentenza definitiva, in caso di conferma della condanna, si spera che Graziano, dica almeno dov’è il corpo. E magari chi lo ha aiutato.

Mauro Valentini