Mauro Valentini

Scrittore & Giornalista

Archivia Ottobre 2021

Marta Russo e quel senso di ingiustizia

Testimonianze a orologeria per condannare e salvare (quasi) tutti

«Per Marta Russo non è stata fatta Giustizia»
(Sandro Provvisionato)

«Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro sono manifestamente innocenti.»
(Paolo Mieli)

Si torna a parlare dell’omicidio Marta Russo in TV, occasione data dal docufilm andato in onda giovedì 21 ottobre in prima serata dal titolo: “Marta – Il delitto della Sapienza“, una coproduzione Rai Documentari e Minerva Pictures, prodotta da Gianluca Curti e Santo Versace, per la regia di Simone Manetti, scritto da Emanuele Cava, Gianluca De Martino e Laura Allievi.
Un documentario scritto e diretto benissimo, che scorre su due binari: il primo quello della vita di Marta, pieno di emozioni, dei suoi sogni e dei suoi pensieri, ritrovati dalla sorella Tiziana dentro a diari che Marta aveva scritto negli anni precedenti al suo omicidio. Parallelamente poi si ascoltano i protagonisti del processo che ha visto, dopo cinque gradi di giudizio e mille polemiche, condannati Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro per omicidio colposo e per favoreggiamento.

Chi vi scrive, nonostante quella vicenda giudiziaria l’ha seguita, studiata e ci ha scritto un libro e uno spettacolo teatrale, svelando quello che non tornava dopo quei cinque processi che hanno scontentato tutti, ha potuto rivivere con emozione e diciamolo pure, con rabbia certi passaggi di una vicenda che ha portato via la vita di una ragazza piena di speranze e amata da tutti e che ha prodotto uno dei processi più incredibili della pur incredibile storia giudiziaria italiana.

Non voglio elencare quello che palesemente non combacia nelle testimonianze che hanno portato in carcere Scattone e Ferraro, ma ci sono delle evidenze su cui tutti dovrebbero ragionare affinché un processo come quello per la morte di Marta non accada mai più.
A cominciare dai metodi di raccolta delle prove, con test su particelle prodotte da freni a disco scambiate per tracce di sparo, continuando con il metodo di ricerca della dichiarazione da parte degli inquirenti, condito da neanche troppo velate forzature su cui nessuno ha poi colpevolmente agito disciplinarmente, passando per l’abbandono di piste investigative semplici e dirette verso almeno una decina di personaggi che maneggiavano armi all’interno della Sapienza, che secondo la DIGOS erano legati ad associazione eversive e che non si chiamavano né Scattone e né Ferraro.

Quello che mi ha colpito invece sono state le dichiarazioni dell’allora capo della Mobile Nicolò D’Angelo, che nel documentario parlando degli accusati, spiega che da loro ha avuto: “sensazione di mancanza di empatia” verso la vittima, arrogandosi conoscenze psicologiche che non mi risulta abbia e che possono avere dignità in una fiction non nella vita vera. Dove contano le prove, non le sensazioni.

Ho sussultato davanti alle immagini che mostravano il PM Carlo Lasperanza dopo pochi minuti dallo sparo già affacciato alla finestra del bagno di Statistica, dove per le pulizie avevano agito poche ore prima personaggi segnalati con informativa dalla DIGOS proprio come possibili autori dello sparo. Quella stessa finestra indicata dal perito della Corte, il Professor Torre, come il luogo da dove è partito il colpo. Lui, Lasperanza,  era lì, e lui e gli altri dietro di lui, sono invece saliti diversi giorni dopo al primo piano, hanno cercato e non trovato prove nell’Aula 6 e hanno però tralasciato la pista iniziale.

E pensare che poi… due anni dopo quello sparo, viene ucciso il professor D’Antona per mano delle nuove Brigate Rosse. E uno dei componenti del commando è quello che quella mattina, quando Marta viene colpita, ha appena fatto le pulizie proprio lì, nel bagno di Statistica! Che coincidenza vero?

“Le pistole che abbiamo sequestrato ai dipendenti della società di pulizie non erano compatibili con quella che ha sparato a Marta Russo” dice Lasperanza alle telecamere di chi documenta, come se chi avendo sparato e ucciso una ragazza innocente certamente per sbaglio, vedendo che tutte le televisioni e finanche il Presidente della Repubblica alla ricerca della verità, potesse ingenuamente conservare in casa l’arma del delitto.

E poi la video cassetta che viene mostrata durante il processo, con le modalità di interrogatorio della teste chiave, Gabriella Alletto, che viene interrogata con metodi certamente inusuali e addirittura in presenza del cognato ispettore. Gabriella che nei dialoghi ivi registrati si sente dire al cognato:

«Io non ce stavo là dentro Gi’… te lo giuro sulla testa dei miei figli, ha sbagliato la Lipari… Stavo nella quattro… Io sono andata nella stanza quattro per fare un fax, la Lipari mi ha visto lì. Da sola… a fare un fax, che la Lipari lo può di’… io ci ho anche le prove che ho fatto il fax…»

E poi, il 14 giugno, un mese e cinque giorni dopo lo sparo, d’improvviso invece, Gabriella Alletto ricorderà tutto. Inchiodando Scattone e Ferraro al loro destino.

Ci sarebbe un elenco lunghissimo di assurdità da raccontare (e infatti ci ho scritto un libro): dai tabulati sbagliati che confondono i ricordi dell’altra testimone Maria Chiara Lipari, alle pressioni fatte agli testimoni su presunte loro assunzioni irregolari dentro l’università, al ritrovamento mesi dopo, nei bagli del Rettorato,  di una pistola compatibile con quella che ha sparato  ecc…ecc…

Il luogo dell’omicidio

Eppure questo processo, che in condizioni normali non si sarebbe dovuto proprio svolgere e che si sarebbe dovuto fermare dopo la scoperta della videocassetta dell’interrogatorio a Gabriella Alletto, ha comunque prodotto una sentenza. Una sentenza spiazzante, che molti hanno valutato amaramente come il male minore per salvare procura, testimoni e opinione pubblica.

Una sentenza che ha quindi salvato tutti, meno Scattone e Ferraro, condannati a una pena irrisoria dalla Giustizia, ma che ancora scontano, 24 anni dopo i fatti, l’ergastolo del pubblico ludibrio.
Provate se avete ancora dubbi sullo scempio che è stato fatto, ad andare nei luoghi della tragedia.
Mettetevi nella posizione dove Marta è stata colpita. Guardate la finestra del bagno di Statistica, e poi provate a volgere lo sguardo alla finestra dell’Aula 6. Se la riuscite a vedere da quel punto.
Poi, andate dentro il bagno di Statistica e guardate da lì come ho fatto io e come ha fatto subito dopo lo sparo il PM. E se non bastasse, salite al primo piano, a Filosofia del Diritto. Entrate nell’Aula 6, affacciatevi da quella finestra che ora ha un piccolo condizionatore ma che all’epoca ne aveva uno grande un metro per un metro appoggiato sul davanzale. Cercate da lì di vedere se ci riuscite il punto dove Marta stava passando. E provate a immaginare se è possibile che tutto ciò che è stato sentenziato sia vero.

Provateci. Non servirà altro per convincervi.

Mauro Valentini

NO TIME TO DIE – L’ultima di Daniel

James Bond si è innamorato

Alla quinta e ultima performance nel ruolo dell’agente più famoso al mondo, Daniel Graig regala una prova d’attore sontuosa e piena di quelle sfumature passionali e appassionate che avevamo per la verità già intravisto sia in Spectre (il più bello della sequenza “Graighiana” di Bond) che in Skyfall.

Daniel Graig

Bond… James Bond… non è più 007, lo ha sostituito l’agente Nomi, una ragazza dai modi spicci e molto in carriera. Lui, il nostro James, si è ritirato a vita privata dopo una rocambolesca azione in quel di Matera, una operazione che gli ha portato via l’amore e la voglia di lavorare. Perché è proprio cosi: Bond ha il mal d’amore.
Ma si sa, non può rimanere inattivo per molto, e una azione terroristica violentissima dentro un laboratorio londinese, che comporterà il furto di una potente bio-arma letale a carico del DNA (e pensare che il film è stato scritto prima del Covid…) e il ricongiungimento di un vecchio amico dell’FBI, Felix Leither, che scova Bond nel suo Buen Retiro in Giamaica, costringeranno l’ex 007 a tornare agli ordini di Sua Maestà per un’ultima volta.

Un film molto ricco di dialoghi oltre che della solita azione spettacolare, che varrebbe il biglietto soltanto per i primi 30 minuti a Matera

Una Matera colorata con generosa dolcezza dal direttore della fotografia e premio Oscar Linus Sandgren (quello di La La Land per capirci non uno qualsiasi) e che restituisce una umanissima figura di un uomo, Bond, stanco di vivere quella vita rocambolesca e con una voglia di famiglia quasi melodrammatica.

Daniel Graig e Lea Seydoux a Matera

Una prova d’attore si è detto quella di Graig sopra le righe, quasi esagerata per quello che comunque voleva esser nelle intenzioni un action-movie a tutti gli effetti. Ma che in fondo non riesce completamente nel suo intento (ed è un pregio sia chiaro) proprio per quella “voglia di tenerezza” che ha non solo Bond ma anche chi gli sta attorno, a partire dalla giovane e bellissima Madeleine, interpretata da Lea Seydoux qui con figlia di cinque anni al seguito, e via via tutti gli altri, dai soliti “M” e “Q” fino alla nuova 007 (la bravissima Lashana Lynch) tutti pervasi dal fuoco sacro dell’amore o di quello che gli somiglia.

Si è atteso tanto, colpa della pandemia, per avere questo No time to die al cinema.
E il cambiamento che arriverà dopo questo episodio sarà epocale, non solo per il commiato di Daniel Graig, ma anche e soprattutto perché nessuno potrà più esser questo 007. E questa notizia lascerà tutti gli appassionati della saga con un senso di malinconica consapevolezza che colui che hanno sempre pensato speciale e insuperabile, in fondo è solo un uomo innamorato che guida una Aston Martin su strade senza ritorno.

Mauro Valentini

Ambra e il Tapiro usato come clava

Vi siete divertiti con le corna della Angiolini?

Che Striscia la Notizia non sia campione di eleganza questo lo sappiamo tutti, del resto a volte proprio questa sua capacità di non esser corretto ha fatto la sua fortuna.

I Tapiri poi, sono entrati nell’immaginario collettivo e sono icona di costume quando si deve sbeffeggiare un politico o un VIP chiamiamoli cosi che hanno compiuto qualche gaffe o si sono macchiati di uno scivolone maldestro, noto alla stampa e ai social.

Secondo la Treccani infatti : attapirare v. tr. [der. di tapiro, con riferimento al «tapiro d’oro», premio ironicamente consegnato dalla trasmissione televisiva «Striscia la notizia», a partire dal 1996, a personaggi noti che si sono distinti per comportamenti considerati riprovevoli o perdenti], scherz. – Consegnare a qualcuno il premio satirico «tapiro d’oro»; per estens., infierire con ostinazione contro chi ha subito uno smacco o ha commesso un errore.

Quindi Ambra Angiolini, che lo ha ricevuto dalle sapienti e dotte mani di Valerio Staffelli (uno che prima e dopo il Tapiro non si sa cosa abbia fatto ne cosa farà) ha subito uno smacco, o meglio ancora ha commesso un errore: Quello di esser stata tradita dal suo compagno famoso.

Il tutto tra scrosci di risate finte e con il plauso dei due conduttori in studio, uno su cui possiamo anche stendere un velo pietoso di compassione, ma l’altra, su cui una riflessione andrebbe fatta.

Vanessa è stata vittima dei social per il suo aspetto e si è spesa come difensore dei diritti delle donne. Ora trovarla ad avallare senza una parola di solidarietà a un servizio obiettivamente imbarazzante lascia inorriditi.
Aggiungiamo tra l’altro che il signor Staffelli fa nello stesso servizio battute allusive su un rapporto omosessuale tra Allegri e Dybala, con tanto di foto mezzo nudo del calciatore. Insomma, un servizio da galleria degli orrori di cui, non mi risulta, ancora nessuno si sia dissociato né tantomeno scusato con Ambra.

Che dal canto suo l’ha presa a ridere anche se obiettivamente sorpresa e disorientata da quanto le stavano dicendo. Meno male che Staffelli le ha ricordato che lei comunque è una bella donna… che se fosse stata brutta secondo i suoi canoni chissà che altro avrebbe detto.

Intanto Canale 5, nel 2021, manda nella trasmissione più vista in quella fascia oraria un servizio come questo. Perché del resto, cara Ambra, se ti ha lasciata, o meglio ti ha tradita, avrai commesso un errore. O subito uno smacco, fai tu.  Altrimenti il Tapiro non lo avresti meritato.

Ah dimenticavo: Ambra non è una soubrette come la definiscono gli ignavi conduttori, che poi addirittura cantano e scimmiottano una canzone che Ambra cantava quando aveva 16 anni.
Forse agli autori è sfuggito il fatto che Ambra Angiolini, di anni 44, ha all’attivo tra le altre cose ben 23 film, che ha lavorato con registi del calibro di Ferzan Ozpetek, Cristina Comencini e Michele Placido e ha vinto tra le altre cose un David di Donatello, due Nastri d’argento, due Ciak d’oro e il premio Venere come attrice teatrale rivelazione.
Altro che Tapiro ….

Mauro Valentini