Mauro Valentini

Scrittore & Giornalista

NO TIME TO DIE – L’ultima di Daniel

James Bond si è innamorato

Alla quinta e ultima performance nel ruolo dell’agente più famoso al mondo, Daniel Graig regala una prova d’attore sontuosa e piena di quelle sfumature passionali e appassionate che avevamo per la verità già intravisto sia in Spectre (il più bello della sequenza “Graighiana” di Bond) che in Skyfall.

Daniel Graig

Bond… James Bond… non è più 007, lo ha sostituito l’agente Nomi, una ragazza dai modi spicci e molto in carriera. Lui, il nostro James, si è ritirato a vita privata dopo una rocambolesca azione in quel di Matera, una operazione che gli ha portato via l’amore e la voglia di lavorare. Perché è proprio cosi: Bond ha il mal d’amore.
Ma si sa, non può rimanere inattivo per molto, e una azione terroristica violentissima dentro un laboratorio londinese, che comporterà il furto di una potente bio-arma letale a carico del DNA (e pensare che il film è stato scritto prima del Covid…) e il ricongiungimento di un vecchio amico dell’FBI, Felix Leither, che scova Bond nel suo Buen Retiro in Giamaica, costringeranno l’ex 007 a tornare agli ordini di Sua Maestà per un’ultima volta.

Un film molto ricco di dialoghi oltre che della solita azione spettacolare, che varrebbe il biglietto soltanto per i primi 30 minuti a Matera

Una Matera colorata con generosa dolcezza dal direttore della fotografia e premio Oscar Linus Sandgren (quello di La La Land per capirci non uno qualsiasi) e che restituisce una umanissima figura di un uomo, Bond, stanco di vivere quella vita rocambolesca e con una voglia di famiglia quasi melodrammatica.

Daniel Graig e Lea Seydoux a Matera

Una prova d’attore si è detto quella di Graig sopra le righe, quasi esagerata per quello che comunque voleva esser nelle intenzioni un action-movie a tutti gli effetti. Ma che in fondo non riesce completamente nel suo intento (ed è un pregio sia chiaro) proprio per quella “voglia di tenerezza” che ha non solo Bond ma anche chi gli sta attorno, a partire dalla giovane e bellissima Madeleine, interpretata da Lea Seydoux qui con figlia di cinque anni al seguito, e via via tutti gli altri, dai soliti “M” e “Q” fino alla nuova 007 (la bravissima Lashana Lynch) tutti pervasi dal fuoco sacro dell’amore o di quello che gli somiglia.

Si è atteso tanto, colpa della pandemia, per avere questo No time to die al cinema.
E il cambiamento che arriverà dopo questo episodio sarà epocale, non solo per il commiato di Daniel Graig, ma anche e soprattutto perché nessuno potrà più esser questo 007. E questa notizia lascerà tutti gli appassionati della saga con un senso di malinconica consapevolezza che colui che hanno sempre pensato speciale e insuperabile, in fondo è solo un uomo innamorato che guida una Aston Martin su strade senza ritorno.

Mauro Valentini

Ambra e il Tapiro usato come clava

Vi siete divertiti con le corna della Angiolini?

Che Striscia la Notizia non sia campione di eleganza questo lo sappiamo tutti, del resto a volte proprio questa sua capacità di non esser corretto ha fatto la sua fortuna.

I Tapiri poi, sono entrati nell’immaginario collettivo e sono icona di costume quando si deve sbeffeggiare un politico o un VIP chiamiamoli cosi che hanno compiuto qualche gaffe o si sono macchiati di uno scivolone maldestro, noto alla stampa e ai social.

Secondo la Treccani infatti : attapirare v. tr. [der. di tapiro, con riferimento al «tapiro d’oro», premio ironicamente consegnato dalla trasmissione televisiva «Striscia la notizia», a partire dal 1996, a personaggi noti che si sono distinti per comportamenti considerati riprovevoli o perdenti], scherz. – Consegnare a qualcuno il premio satirico «tapiro d’oro»; per estens., infierire con ostinazione contro chi ha subito uno smacco o ha commesso un errore.

Quindi Ambra Angiolini, che lo ha ricevuto dalle sapienti e dotte mani di Valerio Staffelli (uno che prima e dopo il Tapiro non si sa cosa abbia fatto ne cosa farà) ha subito uno smacco, o meglio ancora ha commesso un errore: Quello di esser stata tradita dal suo compagno famoso.

Il tutto tra scrosci di risate finte e con il plauso dei due conduttori in studio, uno su cui possiamo anche stendere un velo pietoso di compassione, ma l’altra, su cui una riflessione andrebbe fatta.

Vanessa è stata vittima dei social per il suo aspetto e si è spesa come difensore dei diritti delle donne. Ora trovarla ad avallare senza una parola di solidarietà a un servizio obiettivamente imbarazzante lascia inorriditi.
Aggiungiamo tra l’altro che il signor Staffelli fa nello stesso servizio battute allusive su un rapporto omosessuale tra Allegri e Dybala, con tanto di foto mezzo nudo del calciatore. Insomma, un servizio da galleria degli orrori di cui, non mi risulta, ancora nessuno si sia dissociato né tantomeno scusato con Ambra.

Che dal canto suo l’ha presa a ridere anche se obiettivamente sorpresa e disorientata da quanto le stavano dicendo. Meno male che Staffelli le ha ricordato che lei comunque è una bella donna… che se fosse stata brutta secondo i suoi canoni chissà che altro avrebbe detto.

Intanto Canale 5, nel 2021, manda nella trasmissione più vista in quella fascia oraria un servizio come questo. Perché del resto, cara Ambra, se ti ha lasciata, o meglio ti ha tradita, avrai commesso un errore. O subito uno smacco, fai tu.  Altrimenti il Tapiro non lo avresti meritato.

Ah dimenticavo: Ambra non è una soubrette come la definiscono gli ignavi conduttori, che poi addirittura cantano e scimmiottano una canzone che Ambra cantava quando aveva 16 anni.
Forse agli autori è sfuggito il fatto che Ambra Angiolini, di anni 44, ha all’attivo tra le altre cose ben 23 film, che ha lavorato con registi del calibro di Ferzan Ozpetek, Cristina Comencini e Michele Placido e ha vinto tra le altre cose un David di Donatello, due Nastri d’argento, due Ciak d’oro e il premio Venere come attrice teatrale rivelazione.
Altro che Tapiro ….

Mauro Valentini

 

Natale in casa Castellitto

Il presepe che fu di Eduardo divide il pubblico e dimostra quanto il Teatro sia lontano dalla TV (e dai suoi spettatori)

C’era molta attesa e prevenuto scetticismo nei confronti di questa volatile e pindarica transposizione dell’opera di Eduardo più famosa (e tutt’altro che la migliore) regalata al pubblico in semi-lockdown l’antivigilia di Natale.
Attesa perché le qualità liriche e iconoclaste del regista Edoardo De Angelis facevano presagire una rilettura di quello scritto dissimile e originale rispetto alla prima teatrale di 90 anni fa e delle due rappresentazioni televisive del 1962 e del 1977. E poi c’era lui, Sergio Castellitto, alle prese con un ruolo che è stato di colui che fu il più grande dramaturgo del secolo passato e con una macchia per molti gravissima: essere nato a Roma.

Come se poi un’opera così intensa e intima nella costruzione e nei ruoli dei protagonisti, si potesse in qualche modo relegare a macchietta locale e non volare oltre. Come quel teatro meritava e meriterà ancora per secoli.

Eppure…

Il cast al completo

De Angelis non riesce a emozionare fino in fondo, rimane forse troppo riverente nei confronti del Maestro e non fa esplodere quella sua riconosciuta capacità di sorprendere con cui era riuscito in opere precedenti e prettamente cinematografiche come Perez e soprattutto Indivisibili , con cui aveva vinto David e Venezia nel 2017.
La regia è troppo pulita, manca di quel guizzo che dovrebbe esser mezzo televisivo, evidenziando la differenza tra il Teatro, quello vero, e la Televisione, che è sempre troppo stretta anche a 65 pollici.

E che soprattutto non è palcoscenico, non crea quella magia tra spettatore e attore che lo rende unico.

Lo sapeva bene Eduardo che tanto ci lavorò per adattare le sue opere alla divulgazione televisiva, e lo sa benissimo anche Castellitto che, in un prologo prima dell’inizio, aveva pregato tutti di non paragonare, di non sovrapporre il suo Luca Cupiello a quello vero. A quello del Maestro.

Sergio Castellitto è Luca Cupiello

Gli attori ce la mettono tutta, e bravissimi sono tutti, dallo stesso Castellitto a Marina Confalone e seppur con qualche limite a Adriano Pantaleo, apparso troppo elettrico e macchiettistico nel suo Tommasino. Ce la mettono tutta ma rimane l’amaro in bocca, la sotterranea sensazione di qualcosa di incompiuto, di non definitivo, dimostrando ancora una volta che la televisione è proprio la casa più stretta e malsana della rappresentazione teatrale.

E del resto, Eduardo, in una sua intervista, si era espresso in modo bonario e accogliente nei confronti del mestiere dell’attore, dicendo che in fondo: Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato, quello, è il teatro”

Buon Natale a tutti i Cupiello del mondo.

Mauro Valentini

PSYCHO – Come nasce un capolavoro

60 anni fa il libro di Robert Bloch che diede vita al più geniale film della storia del cinema

“Quella scena dura solo 45 secondi, ma occorsero sette giorni di lavorazione, 72 posizioni della macchina da presa. L’accoltellamento dura 22 secondi per un totale di 35 inquadrature e in nessuna di queste si può vedere il coltello affondare nel corpo di Marion; è il montaggio serrato che fa supporre allo spettatore quello che non si vede, ogni coltellata è un taglio del montaggio, in questo senso un “taglio” vero e proprio!”

Janet Leigh così raccontava quella scena, quell’urlo dietro la tenda che è forse la scena più famosa della storia del cinema.

La scena principe del film

Quell’agosto del 1959 Sir Alfred aveva il contratto in scadenza con la Paramaount a cui doveva un ultimo film. Prima di partire per l’Inghilterra per le vacanze, la sua segretaria Dolores gli regalò un libro di cui si diceva un gran bene, un Horror di Robert Bloch: Psycho, che si ispirava ad un fatto realmente accaduto nel Wisconsin qualche anno prima.

Il viaggio era lungo e Hitchcock era un allenato lettore, quando arrivò a Londra telefonò alla Paramount e disse “ Abbiamo la storyline per il film!”.

In realtà il libro di Bloch era davvero cruento, la donna sotto la doccia veniva addirittura decapitata. No, non era lo stile di “Hitch”, ci voleva uno sceneggiatore che riscrivesse la storia, la modellasse per lo stile del Maestro e che potesse passare la dura censura americana, che in quella scena avrebbe storto il naso per due motivi, il sangue rosso avrebbe avuto zero possibilità di passare la censura e il fatto che la doccia Janet Leigh doveva farla logicamente nuda.

Hitch spiega la scena a Janet Leigh sul set

Lo faremo in bianco e nero” spiazzò tutti Alfred. Si pensò soltanto al fatto che il sangue sarebbe stato più soft, ma in realtà l’idea del bianco e nero in epoca di grande entusiasmo per il colore nascondeva nell’artista una sua visione gotica, espressionista.

Del resto Hitchcock a Berlino prima della guerra fu o non fu l’assistente niente di meno che di Murnau in “ L’ultima risata”?

E le nudità? “ troveremo una soluzione”.

Per la sceneggiatura fu scartato James Canavagh, proposto dalla Paramount ma che Hitchcock e signora (assistente occulta del Maestro) definirono noioso, per questo “Hitch” scovò il giovanissimo Joseph Stefano, che non si lasciò sfuggire l’occasione della vita. Stefano spiazza il Maestro, lesse il libro e al primo incontro gli disse che questo film aveva una protagonista, cioè la vittima! Rovesciare il plot narrativo quindi, questa la sfida e scriverlo dal punto di vista di Marion e non del suo assassino; Marion, che ha una relazione complicata, in un attimo di follia ruba i soldi al lavoro, Marion che scappa, si perde, incontra Norman si rende conto di quanto può esser brutta la vita in solitudine e allora decide di restituire i soldi. Deciderlo la rasserena, si sente meglio, fa una doccia purificatrice e allora… Ecco che entra la morte dietro quella tenda a sconvolgere tutto e a trasferire la scena verso “l’altro”. A Hitchcock piacque cosi tanto che le sue prime parole fu” dobbiamo farla fare ad una vera Star” .

Alfred Hitchcock

Stefano lo aveva convinto, la protagonista era la vittima non l’assassino. Una novità incredibile per l’epoca. Il rapporto con lo sceneggiatore fu subito speciale, si vede da come poi il film fu scritto, non si parlò più del libro da cui si era preso spunto, i personaggi agivano secondo altri impulsi, che venivano in mente a loro due.

Nel libro Norman Bates è un uomo di mezza età, sovrappeso e senza nessuna qualità, Stefano riuscì a creare un uomo diverso, vulnerabile triste e di cui nonostante tutte le sue misteriose azioni presagio di follia se ne potesse provare compassione.

E dopo aver letto il personaggio Hitch disse ” che ne dite di Tony Perkins?”

Janet Leigh invece fu scelta tra le grandi star solo perché lei era cosi felice di lavorare con Hitchcock che non si preoccupò di morire nel primo tempo…E fu la sua fortuna.

Janet Leigh

Il resto del Cast fu scelto con cura, ma il difficile fu mantenere il segreto sul fatto che la mamma di Norman non esistesse in realtà, qualcuno si sarebbe potuto vendere la notizia, rovinando di fatto tutta la storia e il genio di Sir Alfred decise di spargere la voce che cercava una attrice per il ruolo della madre di Bates, cosi che nell’ambiente e tra i giornalisti nessuno sospettò di nulla.

Saul Bass era il “Picture assistant” di Hitchcock, i titoli di testa e di coda furono suoi, ma soprattutto disegnò benissimo tutta la scena della doccia, suggerì ogni inquadratura tanto che si sparse la voce ( o la fece spargere lui apposta) che l’avesse materialmente diretta. Ma Alfred Hitchcock mai avrebbe fatto dire un “ciack azione” a nessuno, in nessun film. Figuriamoci in una scena come quella!

La scena girata in uno spazio di quattro metri per quattro, con una controfigura completamente nuda soltanto per esser usata nel controluce della tenda, in cui Janet Leigh coperta di un pareo di seta bianco aderentissimo che copriva le parti intime non poteva fare. Fu scelta una certa Marli Renfro, che era una spogliarellista famosissima, che girò nuda per una settimana nel set, per la gioia di tutti i cameramen e i tecnici, beccandosi una mezza polmonite visto che

Anthony Perkins

l’acqua della doccia era sempre aperta.

Si diceva del segreto del film (la Signora Bates che è in realtà già morta ma che si scopre solo alla fine), ebbene, come salvaguardare la sorpresa a tutti?

Hitchcock aveva una risposta per tutto: pretese di non far entrare nessuno al cinema a film iniziato, perché diceva “chi entra dopo la scena della doccia non trovando Janet Leigh si chiederà dove sia”. E fu un successo, vietare l’ingresso “anche alla Regina d’Inghilterra”, come recitava il cartello della presentazione spingeva la gente ancor più ad andare a vederlo. Non si fecero “prime” per la stampa, neanche quelli che ci avevano lavorato lo videro, se non al Cinema. Lo stesso Joseph Stefano, che pure il film lo aveva scritto, raccontò che per vederlo con la sua famiglia andò al Cinema a Los Angeles, fece la fila come tutti e quando vide quello che erano riusciti a fare in quella scena della doccia gridò di paura come tutti in sala!

Era riuscito a sconvolgere il pubblico e ad entrare nella Storia.

François Truffaut

Francois Truffaut di questo film che adorava diede la spiegazione migliore, che le racchiude tutte! “Il film è fatto talmente bene che può indurre il pubblico a fare qualcosa che ormai non fa più – urlare verso i personaggi, nella speranza di salvarli dal destino che è stato astutamente lasciato intuire li stia attendendo. Il pubblico all’inizio teme per una ladra, poi nelle scene della pulizia della stanza del motel e dell’affondamento della macchina nella stagno teme che l’assassino non riesca a cancellare le tracce della morte della ragazza, nel finale desidera che sia catturato e costretto a confessare per conoscere il segreto della storia.

Lo spettatore suo malgrado parteggia per i colpevoli e prova pietà per quel povero Norman, che (citando la scena finale) non farebbe male nemmeno ad una mosca”.

Mauro Valentini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quell’11 Settembre visto con gli occhi di un bambino

Molto forte, incredibilmente vicino – Ovvero quando è il cinema a ricordarci che la storia siamo noi

Che solo dopo 11 anni il cinema americano si sia avvicinato alla tragedia dell’11 Settembre dal punto di vista emozionale più che della cronaca non era stata una sorpresa.

Ogni evento luttuoso dell’ultimo secolo, ha toccato il Cinema prima nella narrazione lucida e poi nell’analisi che tali accadimenti producono nell’anima delle persone coinvolte.

Tom Hanks e Thomas Horn

Come per la guerra in Vietman, dove si e’ assistito a questa elaborazione del dolore, si pensi al Taxi Driver di Scorsese e al Cacciatore di Cimino, personaggi resi deboli e piegati dall’esperienza della guerra, cosi è accaduto anche per quello che in America viene definito “ il giorno più brutto della Storia“.

A fare da “apripista” al progressivo genere post 11 Settembre è stato questo film dal titolo già difficile ancorché splendido: ” Molto forte, incredibilmente vicino“,che nell’anniversario del crollo delle Torri Gemelle ho voluto rivedere e rivivere. Il regista Britannico Stephen Daldry, già introspettivamente narratore in “The readersui drammi del nazismo, ha portato in scena l’evento delle Torri dentro gli occhi di un bambino, che li dentro quei mostri di acciaio vede cadere e polverizzare i suoi 11 anni insieme al suo Papà .

La vita di Oskar verrà travolta dal crollo delle Torri Gemelle, dove il padre perde la vita non prima di aver chiamato al telefono a casa e lasciato voce e dramma nella segreteria telefonica. Oltre quel nastro che il bambino continua ad ascoltare all’infinito, Oskar troverà una busta con un nome e una chiave, “Black”. La ricerca della serratura e del Signore o la Signora Black per tutta New York diventeranno per lui salvifico mezzo di assuefazione al dolore e di compensare il vuoto affettivo di quel padre così brillante e con il sorriso di Tom Hanks.

La storia che è tratta da un romanzo di Jonathan Safran Foer, nel racconto originale si concentra sul parallelismo di Oskar e del nonno muto, ammutolito dalle bombe su Dresda nel 1945, in un ideale doloroso passaggio di testimone, ma che nel film invece si sfiora appena, essendo tutto racchiuso nel gioco di specchi dei pensieri del ragazzo, che alla ricerca di “Black” scopre una città attonita ed ancora sotto shock, come Lui, e come Lui desiderosa di amore.

Gli attori sono una garanzia, oltre al grande Hanks, il bambino, Thomas Horn (doppiato purtroppo in maniera alquanto approssimativa nell’edizione italiana) ha occhi e gesti da grande interprete, e quando si hanno appunto Tom Hanks e Sandra Bullock a disposizione, il disegno della “ordinary family” americana e’ garantito.

Sandra Bullock, si carica di un ruolo difficilissimo, quello di una mamma silenziosa e rifiutata, colpevole agli occhi del ragazzo di esser la sopravvissuta. Lei è il centro nascosto del film, che emoziona e coinvolge, molto di più potremmo azzardare dell’ex naufrago Hanks, che sceglie sempre eroi positivi e senza macchia, come e’ questo Mister Schell, che anche nel momento del crollo della Torre Nord riesce ad aver parole d’amore.

Il migliore però è Max Von Sydon, fuoriclasse assoluto, un nonno ritrovato e muto ( nel vero senso della parola per giocare agli ossimori tanto cari al piccolo protagonista) anch’egli figlio come detto di un dramma di guerra, che riaccende la vita e la speranza di tutti, non solo della famiglia Schell, soltanto con il suo sguardo da mimo ed il suo blocchetto dove trascrive pensieri bellissimi..

La fotografia e’ straordinaria, colta e mai appoggiata all’effetto speciale; le torri sono li sullo sfondo, non ci si indugia e non si cercano come appeal, e quando si vedono in lontananza, lo spettatore non le vede quasi, perché “ci vede” soltanto il povero Thomas che parlando al telefono le umanizza quasi, facendole diventare pensieri e persone e non vetro e cemento.

Un film questo “molto forte”, dove padri e madri, nonni e figli si ritrovano sopravvissuti e vivi in una ricerca di speranza contro le ingiustizie della guerra e del mondo, che Daldry guida con sapienza da autentico campione.

Se non lo avete visto, non lo perdete.

MAURO VALENTINI

Hitchcock – Truffaut – L’incontro che fece la storia

A 40 anni dalla scomparsa il Maestro del Brivido rivive in un docufilm

“Un’artista che scriveva con la Cinepresa”. La definizione perfetta per il cinema di Sir Alfred Hitchcock è quella che esce dalla voce di Francois Truffaut, in quella che rimarrà alla storia come la più bella chiacchierata sulla settima arte di tutti i tempi.

Siamo ad Hollywood, è il 1963, Hitch ha appena finito di girare “Gli uccelli”, Truffaut parte da Parigi con un registratore, una interprete e la voglia di capire l’idea di cinema di colui che la rivista “Cahiers du Cinema” ha sempre difeso dai puristi della critica, che lo reputavano (la storia dirà poi a torto) un semplice imbonitore commerciale che sforna grandi incassi e nulla più.

Ma per il regista francese non fu mai così, egli tradusse in un libro straordinario quest’intervista lunga otto giorni. Un libro che uscirà nel 1966 dal titolo appunto di “ Truffaut intervista Hitchcock”.

La Sacra Bibbia di ogni cinefilo dirà uno che di cinema se ne intende come Martin Scorsese.

Presentato alla Festa del Cinema di Roma in anteprima a ottobre 2015, l’opera è costruita come un epico racconto e realizzato da Kent Jones, direttore del NY Film Fest. Ne viene fuori un documentario ricchissimo di voci e immagini, con al centro l’audio originale di tanti brani di quella maratona di parole tra i due registi. Una maratona ricca di humour tutto inglese, da parte di un divertito e divertente Sir Alfred che gioca con quel giovane e adorato suo collega francese, svelando mille e più trucchi del suo cinema. E mostrando con pochi gesti come si realizza un capolavoro. Un film “alla Hitchcock”.

Da “Vertigo” a Psycho” è un susseguirsi narrativo che incanta e che tracima spesso in nostalgia. “I miei film sono sempre pensati per una sala da 2000 posti piena, non per la visione di uno soltanto”. Ecco forse a distanza di così tanti anni la magistrale lezione che se ne trae da questo bellissimo docu-film è proprio tutta racchiusa nelle parole di Hitchcock.

“Con questo film, non ho intenzione di compiacere i cinefili. Voglio che lo spettatore abbia la viscerale rivelazione di cosa sia il cinema nella sua più potente bellezza”. Le parole del regista non saprebbero spiegare meglio questo capolavoro per appassionati divertente ed emozionante, assolutamente non celebrativo. Ma indimenticabile.

Mauro Valentini

In ricordo di Niki Lauda – Il mio racconto di RUSH

Ron Howard racconta il mito della Formula 1

Ero presente alla presentazione in prima mondiale di RUSH. 

E Ron Howard così sintetizzò in conferenza stampa la sua visione dell’eroe; sia esso un astronauta, un famoso matematico o un grande pilota di Formula 1, quello che più nel suo cinema risulta vincente è questo legame che il pubblico scopre con i personaggi, le loro debolezze e la loro “normalità” al servizio dell’eccesso e del successo.

Nei miei film racconto uomini che si trovano in situazioni particolari da esser considerati degli eroi. E attraverso le loro vite che gli spettatori scoprono i loro lati umani e si riconoscono con essi

Locandina del film

Rush” è proprio questo, il racconto di quei sei anni di vita di due straordinari piloti come James Hunt e Niki Lauda che si contesero nelle loro monoposto un primato che era molto di più di un campionato del mondo, appassionando tra commedia e tragedia non solo gli appassionati di motori ma il mondo intero.

Così diversi questi due campioni, l’Inglese Hunt, bello ed eccessivo, a contendersi la pole position a Lauda, austriaco glaciale e pragmatico, in quel fatidico campionato del 1976, da dove il film parte e arriva.

Una storia in cui i due protagonisti si sfiorano con le loro ruote a trecento all’ora, rivali anche fuori dalla pista, in un gioco di contrapposizioni che subito appassiona e rapisce.

Il contrasto tra l’eroe inglese che vive come una rockstar e l’austriaco cosi sicuro di se da pretendere di dettar legge (e di vincere) nell’officina della scuderia più famosa al mondo sono il “motore” narrativo di Howard, che confeziona un film bellissimo rimanendo in perfetto equilibrio tra racconto sportivo e avvincenti storie di amori e passioni.

Tutto è curato in maniera straordinaria dal regista, coadiuvato da uno sceneggiatore come Peter Morgan, un artista quando si tratta di narrare la cronaca esaltandone l’enfasi, come fu per il meraviglioso “The Queen” per esempio; Morgan ha curato ogni dettaglio insieme a Howard, hanno ascoltato tutto quello che Niki Lauda poteva ricordare di quell’incredibile periodo, arricchendo la sceneggiatura di aneddoti e notizie su James Hunt che nel frattempo è morto di eccessi come amava vivere.

Niki Lauda e James Hunt in una foto del 1979

E poi un tecnicismo cinematografico straordinario, con una fotografia e un colore che richiamano i film dell’epoca, la cinepresa montata sui caschi dei piloti per portare lo spettatore “dentro” la monoposto, una ricostruzione da collezionisti di quei bolidi folli e pericolosissimi e di tutto il contorno che costituiva “la scenografia” degli autodromi,dalle auto alle pubblicità dell’epoca finanche agli ombrellini delle hostess che proteggevano i piloti.

Raccontare di più della trama seppur già scritta nella storia dello sport sarebbe svelare a chi non lo conosce un epilogo emozionante di questo film che corre su un “circuito” fatto di curve e di passioni, di vittorie sotto la bandiera a scacchi e di sconfitte nella vita.

Curato dunque ogni dettaglio scenico e storico, quello che Ron Howard riesce a trasporre però è la contraddizione dell’uomo e dell’eroe che si cela in esso, le rinunce e le sconfitte in cui la vita ti fa inciampare mentre stai puntando il successo, ed è in questo continuo rincorrersi e disprezzarsi che i due protagonisti si ritroveranno imparando a sorridere degli eccessi dell’altro.

Il cast è magnifico, Chris Hemsworth è un Hunt perfetto, bello ribelle e inaccessibile nei pensieri più profondi, una prova che lo sdoganerà speriamo per lui da un certo cinema alla Marvel, mentre Daniel Bruhl ha dovuto trasfigurarsi nel vero senso della parola in Lauda, con un trucco incredibilmente realista e spietato ( chi ha potuto conoscere il vero Lauda rimarrà stupito) pur ritagliandosi una grande prova d’attore, che emerge dentro quella “copia perfetta” del volto del famoso pilota.

Bene Alexandra Maria Lara nel ruolo della “Frau Lauda”, altera e dignitosamente forte anche davanti a momenti difficili, molto bene il nostro Pier Francesco Favino, nella parte di un Clay Regazzoni sornione e intenso, che in una pausa della conferenza stampa ci dice che“ Quando sei diretto da uomo come Ron Howard beh, ogni cosa, anche quella che ti appare come difficile di colpo diventa facile, naturale

La colonna sonora di Hans Zimmer è superba, tra incalzanti melodie che quasi “rombano” insieme alla storia intervallata da una playling list da far sobbalzare di gioia anche il più sofisticato degli amanti del rock anni 70.

Un grande film dunque, una lezione di stile, di scrittura e ripresa, un capolavoro che si consegna alla storia del Cinema di sempre.

TRAILER UFFICIALE

Mauro Valentini

Ugo Tognazzi – Storie e segreti di un grande attore

Omaggio intimo e pittorico al grande attore della commedia di costume italiana

Ricevo e pubblico volentieri:

Scopriamo chi era Ugo Tognazzi! Un libro che è un omaggio (con tavole pittoriche e i testi di Mario Sesti) che raccontano – attraverso una selezione della sterminata filmografia – l’arte e l’impegno di un attore.
«I suoi personaggi raccontano l’affanno continuo del travestimento, dell’elasticità dell’io che cerca sempre l’accettazione e approvazione degli altri e della società, ma il suo sguardo ci comunica sempre la profonda sfiducia, la vanità malinconica, lo scetticismo disperato nei confronti di una esistenza che si fondi sulla nostra capacità di adeguare noi stessi al mondo grazie alla nostra apparenza.»

Un percorso illustrato e poetico che partendo da Il Federale del 1961, arriverà fino a Primo amore del 1978, passando per capolavori come I Mostri e la Grande Abbuffata.

Il Volume è stato pubblicato in occasione della retrospettiva “Ugo Tognazzi”, organizzata da Luce Cinecittà nel Dicembre 2018.
Presentazione a cura del Museum of Modern Art di New York e Luce Cinecittà di Roma, con l’organizzazione di Josh Siegel, curatore del Department of Film MoMA, e di Camilla Cormanni e Paola Ruggiero, Luce Cinecittà.

Il libro:

UGO TOGNAZZI – Storia, stile e segreti di un grande attore

Testi di Mario Sesti – Illustrazioni di Luisa Mazzone in italiano/inglese (traduzione di Adrian Bedford)

(Edizionisabinae – Luce Cinecittà)

Gli autori:

Mario Sesti
Una delle firme più autorevoli della critica cinematografica in Italia, collaboratore de La Repubblica, autore di un programma tv di cinema, Splendor, Mario Sesti è critico, giornalista e storico cinematografico, oltre che autore di film documentari, proiettati al Festival di Cannes, al Festival di Locarno, alla Mostra del Cinema di Venezia, al MoMA e al Guggenheim di New York.

Luisa Mazzone
Diplomata in Scenografia, Arredamento e Costume, allieva di Piero Tosi presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, Luisa Mazzone è scenografa, illustratrice e docente di disegno, specializzata nella realizzazione di scenografie e illustrazioni digitali. Ha lavorato su Mila: un corto d’animazione  internazionale come Visual Development Artist. Assistente scenografa nel film Mine Vaganti di Ferzan Ozpetek, illustratrice per il libro Un attimo di vita (Mondadori Electa), espone nel  2015, per la 72° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica organizzata dalla Biennale di Venezia con una mostra dal titolo “10 Tavole per Pasolini”. Le illustrazioni sono raccolte nel libro Pasolini: il cinema in 20 tavole scritto da Mario Sesti. Ha illustrato un libro su Ugo Tognazzi: storia, stile e segreti di un grande attore con testi di Mario Sesti edito da Edizioni Sabinae. Il volume è stato pubblicato in occasione della retrospettiva “Ugo Tognazzi”, organizzata da Luce Cinecittà, nel dicembre 2018, con presentazione a cura del Museum of Modern Art di New York. Il libro è stato apprezzato dalla stampa locale e americana.

Stanlio & Ollio 

L’amicizia è per sempre

Portare al cinema una coppia mitica del cinema è cosa ardua. I Bio-Pic come vengono chiamati i film biografici sono sempre un rischio, specialmente per chi interpreta personaggi che sono nel cuore e nella mente del pubblico che li ha amati.

Locandina del film originale

E proprio l’amore che Stan Laurel & Oliver Hardy avevano per il loro lavoro è il punto focale di questo film diretto da Jon S.Baird, in una narrazione che parte con un flash back del 1937, all’apice del successo, per poi saltare e svilupparsi a quella che fu la loro ultima tournee teatrale nel Regno Unito vent’anni dopo.

Quelle scene comiche dei film riprodotte a teatro per un pubblico spesso distratto dalla mopdernità post bellica spiazzano e disorientano i due artisti che, proprio in questo percorso da Newcastle fino a Dublino passando per Londra, faranno i conti con il loro passato e la loro grande, meravigliosa amicizia.

In questo film da non perdere i due attori: Steve Coogan nel ruolo di Stan, e John C. Reilly in quello di Ollie, sono semplicemente perfetti.

Laurel & Hardy

I doppi di un duo che è nell’Olimpo del cinema di tutti i tempi.

Stan Laurel sopravvisse al suo tenero amico Hardy otto anni (Ollie morì nel 1957, Stan nel 1965). E Stan per tutti gli ultimi otto anni continuò a scrivere scenette e battute per Oliver, rimanendo, loro che erano degli amanti delle donne, una coppia oltre la professione, una storia di amicizia e di vita tra due persone così diverse in tutto, ma capaci di sorprendere e far ridere con eleganza.

IL TRAILER UFFICIALE DEL FILM

Trailer Stanlio & Ollio

Mauro Valentini

 

 

 

Italia addio, non tornerò

Siamo un popolo di emigranti. Nostro malgrado

Sarà trasmesso in prima TV il primo maggio da FOCUS (canale 35 d.t.) il canale tematico di Mediaset, il docufilm “Italia addio, non tornerò”. Un film realizzato dalla Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell’Emigrazione italiana (da un’idea di Marinella Mazzanti) e a cura della reporter Barbara Pavarotti.

Un viaggio, quello di Barbara, che attraversa i luoghi più “abitati” dai nostri giovani e meno giovani al lavoro per il mondo e che analizza con eleganza e dettaglio i motivi che spingono gli italiani a cercar lavoro e soprattutto dignità in altri paesi e continenti.

Uno spaccato impietoso e allo stesso tempo delicato di tanti percorsi, diversi tra loro ma legati da un unico filo comune, anzi, un’unica costatazione: “in Italia non vince il migliore”. Deduzione che emerge dalle interviste raccolte e montate con grande qualità, siano esse a Londra, a Monaco, ma anche la Spagna, negli Usa, a New York e Los Angeles, o nell’Europa dell’Est, fino a Melbourne.

Il documentario potrete vederlo come detto in prima tv il Primo maggio alle 23: 15 su FOCUS e poi con le repliche: Venerdì 3 maggio: h. 15.15 – Domenica 12 maggio: h. 17:00 e Lunedì 13 maggio: h. 9.45

TRAILER UFFICIALE

https://www.youtube.com/watch?v=6IR03bSZhtM

Ho raccolto le impressione dell’autrice, ascoltandola nel percorso che l’ha portata alla realizzazione del film. E dalle parole di Barbara Pavarotti emerge tutta la passione e anche l’importanza di un mezzo, quello del docufilm, che in altri paesi è molto considerato (se si pensa ai lavori di Michael Moore pluripremiati nei Festival cinematografici) ma che in Italia è ancora prodotto di nicchia.

Barbara Pavarotti

Barbara ci spiega che: «Occuparsi degli italiani all’estero apre un mondo. C’è un’Italia fuori dall’Italia,  sono 65 milioni gli oriundi italiani sparsi in tutti i continenti, e a questi si aggiungono ogni anno circa 300.000 giovani e adulti che partono in cerca di migliori opportunità di vita o per realizzare i propri desideri.

Entrare in contatto con questo mondo porta, a noi che viviamo in un paese invecchiato, pessimista, lamentoso, una ventata di entusiasmo perché gli italiani all’estero si rimboccano le maniche, danno il meglio di sé, lavorano tanto ed eccellono in molti campi. In questo sicuramente aiutati da paesi dove vige un concetto di meritocrazia a noi sconosciuto. All’estero vedono che c’è una competizione più onesta e trasparente e non un sistema basato sull’antico vizio italico delle raccomandazioni, quello che molti di loro definiscono “mentalità mafiosa per l’accesso al mondo del lavoro”

Eppure… «Gli italiani all’estero sono ansiosi di “Italia”, vogliono rimanere in contatto e quindi ci trasmettono la loro energia. Esistono centinaia gruppi social di italiani nel mondo, in cui ci si scambia informazioni, si fa rete, ci si aiuta nei primi passi nel nuovo paese. Con la realizzazione del docufilm , ho cominciato a parlare con loro e ora, ogni volta che li sento, tramite i social, è come se anche io fossi lì, in America, in Australia, nei vari paesi europei.

Perché dunque questo film?

«C’era bisogno di un documentario che raggruppasse le loro voci e “Italia addio, non tornerò” è il primo del genere finora realizzato in Italia. I giovani sono stati felicissimi di partecipare e, alla notizia che verrà trasmesso da Mediaset il primo maggio,  si è scatenato l’entusiasmo. Tutti stanno informando parenti, amici in Italia, mi ringraziano come se il merito fosse mio. Mi scrivono: “Non l’avremmo mai immaginato, allora siamo importanti anche se tanto lontani”.

Perché a volte, oltreoceano, si sentono soli, hanno nostalgia della casa, della famiglia. Per chi sta in Europa è diverso, sono a poche ore di volo, però di fatto non c’è più il confortevole ambito familiare a proteggerli, devono cavarsela e questo li fa crescere più in fretta. Come dice Christian, 27 anni, impiegato in un’azienda di credito finanziario in Estonia: “Trasferirmi mi ha reso molto più pratico, mi ha fatto capire i problemi quotidiani: pulire la casa, visto che non me la pulisce nessuno, fare la spesa. Cose di cui un ragazzo ha bisogno per crescere”

Un messaggio sociale o politico questo?

«Questo è un monito per i nostri politici, un grido d’allarme e molti l’hanno definito “un sonoro schiaffo al sistema Italia”. Perché un paese sano non rinuncia ai propri figli così, nella generale indifferenza. Non perde, insieme ai giovani, il proprio futuro.  Un conto è partire per scelta, per vivere nuove avventure e conoscere altri mondi, un conto perché in Italia ti hanno sbattuto tutte le porte in faccia e il lavoro è una questua, un’elemosina gentilmente concessa.  I protagonisti del docufilm lo dicono: “In Italia per me non c’era nulla, solo lavoretti precari, avevo perso la fiducia, la speranza. Impensabile fare la carriera che mi sono costruito qui”.  E di questa situazione sono colpevoli tutti, politici e non. E’ colpevole anche la generazione che li ha preceduti, perché non si è resa conto di cosa stava accadendo. E ora che la sconfitta italiana è evidente, ora che le famiglie vivono sulla propria pelle il dramma dei giovani che non trovano lavoro, tutti lì a battersi il petto e a chiedersi come fare.»

Hai la sensazione che sia un momento, e che questi ragazzi torneranno?

«Intanto questi giovani non tornano e non vogliono tornare, se non in vacanza. Hanno l’Italia nel cuore, ma restano dove sono. L’Italia è chiusa, provinciale, stretta, immobile. Anche questa è una sconfitta. E dovrebbe fare molto riflettere il fatto che il nostro paese sia considerato così dai nostri giovani internazionalizzati.

La speranza è che “Italia addio, non tornerò”  possa suscitare la sufficiente indignazione affinché  il tema dell’emigrazione italiana degli anni 2000, tornata ai livelli del dopoguerra,  sia preso seriamente in considerazione. Non solo come un fenomeno positivo, di mobilità, come è stato fatto finora. Troppo facile dire: siamo cittadini del mondo e con questo non fare assolutamente nulla in Italia per creare le giuste condizioni di lavoro per le nuove generazioni. Anzi, deprezzandolo questo lavoro, con stipendi sempre più bassi, precarietà diffusa e sfruttamento. La speranza è anche e soprattutto che questo docufilm possa contribuire a sancire un principio troppo spesso negato, in Italia e in tante altre parti del mondo: liberi di partire, ma anche liberi di restare e di tornare

Intervista a Barbara Pavarotti raccolta da Mauro Valentini