Un Giorno in Pretura racconta il processo contro la famiglia Ciontoli
Atteso e molto criticato già nella presentazione, è iniziato il nuovo percorso della trasmissione di servizio di Rai Tre che analizza i casi di cronaca nera del paese attraverso la cronaca dentro le aule dei tribunali.
31 anni di trasmissioni, e tanti, tantissimi elogi per la conduttrice e autrice Roberta Petrelluzzi, sempre attenta a rimanere in equilibrio tra narrazione e obiettività.
Foto Rai Tre
Io personalmente ricordavo finora (perché me ne occupai anni fa per il mio libro Cianuro a San Lorenzo) soltanto una concessione da parte della conduttrice a tale rigore quando, commentando la sentenza che assolveva Daniela Stuto dall’accusa di esser stata l’assassina di Francesca Moretti, si lasciò sfuggire un augurio sincero alla ragazza assolta e una vicinanza che sorprese tutti. Altrimenti, sempre equilibrio narrativo, lasciando sempre parlare l’Aula di Tribunale, le vittime, gli accusati, i Giudici. Del resto è questa la missione de “Un Giorno in Pretura“.
Eppure… Questa stagione numero 30 è iniziata con un taglio che a molti è apparso di rottura con il passato. Sigla nuova, studio nuovo e con una sensazione di grandezza immotivata per una sola persona seduta alla scrivania, e poi soprattutto la prima serata della domenica su Rai Tre, con un numero medio di ascolti di circa un milione e mezzo contro i 600mila circa del dopo mezzanotte (fonti dati auditel).
Rottura soprattutto, ed è questo che ha spiazzato e indignato i fedelissimi telespettatori, anche nel coinvolgimento verso gli attori della storia che è stata raccontata nella prima puntata: il Caso Vannini.
Innanzitutto iniziando dal titolo: Il caso Ciontoli. Strana scelta, forse corretta in punta di logica giuridica, ma certo scelta di “rottura” nei confronti della stampa nazionale e dei programmi televisivi che hanno preso coscienza dell’enorme ingiustizia perpetrata alla famiglia di Marco. Una scelta direi non compresa dall’opinione pubblica che infatti si è scatenata sui social e ai centralini della Rai.
Io vi propongo due elementi tratti da Facebook, uno della Petrelluzzi in persona che il 26 aprile così scriveva con una sorta di lettera aperta a Martina Ciontoli e poi la risposta sulla pagina a Marco dedicata da parte del cugino di Marco, Alessandro.
Li pubblico lasciando stavolta a Voi il commento. Che potete scrivere qui sotto.
Sarà trasmesso in prima TV il primo maggio da FOCUS (canale 35 d.t.) il canale tematico di Mediaset, il docufilm “Italia addio, non tornerò”. Un film realizzato dalla Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell’Emigrazione italiana (da un’idea di Marinella Mazzanti) e a cura della reporter Barbara Pavarotti.
Un viaggio, quello di Barbara, che attraversa i luoghi più “abitati” dai nostri giovani e meno giovani al lavoro per il mondo e che analizza con eleganza e dettaglio i motivi che spingono gli italiani a cercar lavoro e soprattutto dignità in altri paesi e continenti.
Uno spaccato impietoso e allo stesso tempo delicato di tanti percorsi, diversi tra loro ma legati da un unico filo comune, anzi, un’unica costatazione: “in Italia non vince il migliore”. Deduzione che emerge dalle interviste raccolte e montate con grande qualità, siano esse a Londra, a Monaco, ma anche la Spagna, negli Usa, a New York e Los Angeles, o nell’Europa dell’Est, fino a Melbourne.
Il documentario potrete vederlo come detto in prima tv il Primo maggio alle 23: 15 su FOCUS e poi con le repliche: Venerdì 3 maggio: h. 15.15 – Domenica 12 maggio: h. 17:00 e Lunedì 13 maggio: h. 9.45
Ho raccolto le impressione dell’autrice, ascoltandola nel percorso che l’ha portata alla realizzazione del film. E dalle parole di Barbara Pavarotti emerge tutta la passione e anche l’importanza di un mezzo, quello del docufilm, che in altri paesi è molto considerato (se si pensa ai lavori di Michael Moore pluripremiati nei Festival cinematografici) ma che in Italia è ancora prodotto di nicchia.
Barbara Pavarotti
Barbara ci spiega che: «Occuparsi degli italiani all’estero apre un mondo. C’è un’Italia fuori dall’Italia, sono 65 milioni gli oriundi italiani sparsi in tutti i continenti, e a questi si aggiungono ogni anno circa 300.000 giovani e adulti che partono in cerca di migliori opportunità di vita o per realizzare i propri desideri.
Entrare in contatto con questo mondo porta, a noi che viviamo in un paese invecchiato, pessimista, lamentoso, una ventata di entusiasmo perché gli italiani all’estero si rimboccano le maniche, danno il meglio di sé, lavorano tanto ed eccellono in molti campi. In questo sicuramente aiutati da paesi dove vige un concetto di meritocrazia a noi sconosciuto. All’estero vedono che c’è una competizione più onesta e trasparente e non un sistema basato sull’antico vizio italico delle raccomandazioni, quello che molti di loro definiscono “mentalità mafiosa per l’accesso al mondo del lavoro”.»
Eppure… «Gli italiani all’estero sono ansiosi di “Italia”, vogliono rimanere in contatto e quindi ci trasmettono la loro energia. Esistono centinaia gruppi social di italiani nel mondo, in cui ci si scambia informazioni, si fa rete, ci si aiuta nei primi passi nel nuovo paese. Con la realizzazione del docufilm , ho cominciato a parlare con loro e ora, ogni volta che li sento, tramite i social, è come se anche io fossi lì, in America, in Australia, nei vari paesi europei.
Perché dunque questo film?
«C’era bisogno di un documentario che raggruppasse le loro voci e “Italia addio, non tornerò” è il primo del genere finora realizzato in Italia. I giovani sono stati felicissimi di partecipare e, alla notizia che verrà trasmesso da Mediaset il primo maggio, si è scatenato l’entusiasmo. Tutti stanno informando parenti, amici in Italia, mi ringraziano come se il merito fosse mio. Mi scrivono: “Non l’avremmo mai immaginato, allora siamo importanti anche se tanto lontani”.
Perché a volte, oltreoceano, si sentono soli, hanno nostalgia della casa, della famiglia. Per chi sta in Europa è diverso, sono a poche ore di volo, però di fatto non c’è più il confortevole ambito familiare a proteggerli, devono cavarsela e questo li fa crescere più in fretta. Come dice Christian, 27 anni, impiegato in un’azienda di credito finanziario in Estonia: “Trasferirmi mi ha reso molto più pratico, mi ha fatto capire i problemi quotidiani: pulire la casa, visto che non me la pulisce nessuno, fare la spesa. Cose di cui un ragazzo ha bisogno per crescere”.»
Un messaggio sociale o politico questo?
«Questo è un monito per i nostri politici, un grido d’allarme e molti l’hanno definito “un sonoro schiaffo al sistema Italia”. Perché un paese sano non rinuncia ai propri figli così, nella generale indifferenza. Non perde, insieme ai giovani, il proprio futuro. Un conto è partire per scelta, per vivere nuove avventure e conoscere altri mondi, un conto perché in Italia ti hanno sbattuto tutte le porte in faccia e il lavoro è una questua, un’elemosina gentilmente concessa. I protagonisti del docufilm lo dicono: “In Italia per me non c’era nulla, solo lavoretti precari, avevo perso la fiducia, la speranza. Impensabile fare la carriera che mi sono costruito qui”. E di questa situazione sono colpevoli tutti, politici e non. E’ colpevole anche la generazione che li ha preceduti, perché non si è resa conto di cosa stava accadendo. E ora che la sconfitta italiana è evidente, ora che le famiglie vivono sulla propria pelle il dramma dei giovani che non trovano lavoro, tutti lì a battersi il petto e a chiedersi come fare.»
Hai la sensazione che sia un momento, e che questi ragazzi torneranno?
«Intanto questi giovani non tornano e non vogliono tornare, se non in vacanza. Hanno l’Italia nel cuore, ma restano dove sono. L’Italia è chiusa, provinciale, stretta, immobile. Anche questa è una sconfitta. E dovrebbe fare molto riflettere il fatto che il nostro paese sia considerato così dai nostri giovani internazionalizzati.
La speranza è che “Italia addio, non tornerò” possa suscitare la sufficiente indignazione affinché il tema dell’emigrazione italiana degli anni 2000, tornata ai livelli del dopoguerra, sia preso seriamente in considerazione. Non solo come un fenomeno positivo, di mobilità, come è stato fatto finora. Troppo facile dire: siamo cittadini del mondo e con questo non fare assolutamente nulla in Italia per creare le giuste condizioni di lavoro per le nuove generazioni. Anzi, deprezzandolo questo lavoro, con stipendi sempre più bassi, precarietà diffusa e sfruttamento. La speranza è anche e soprattutto che questo docufilm possa contribuire a sancire un principio troppo spesso negato, in Italia e in tante altre parti del mondo: liberi di partire, ma anche liberi di restare e di tornare.»
Intervista a Barbara Pavarotti raccolta da Mauro Valentini
Solo ora i nostri Carabinieri in Kenya. Sperando non sia troppo tardi
Era il 20 novembre 2018 quando dal Kenya arrivò la notizia del rapimento di Silvia.
Milanese, 23 anni, Silvia Romano, che trovava in Africa come volontaria della piccola organizzazione Africa Milele Onlus. È stata rapita nel villaggio Chakama, della Contea di Kalifi.
Un luogo sperduto eppure pare molto noto alle organizzazioni criminali locali.
Nei primi giorni dal rapimento dal Kenya arrivano rassicurazioni al nostro governo e il ritrovamento sembra cosa facile. Grandi novità in vista, ostentazione di forza da parte della polizia locale, decine di arresti… tanti arresti. Troppi per esser un buon segnale però. Infatti, da quel momento in poi più niente. Le notizie si fanno sempre più rare, fino quasi a scomparire del tutto.
Pensavamo si stesse lavorando sottotraccia, con un silenzio stampa propedeutico a una soluzione e invece scopriamo che ora, dopo cinque mesi dal rapimento, il nostro comando dei Carabinieri dei ROS ha richiesto invano il fascicolo. Cosa stavamo aspettando e perché il PM incaricato Sergio Colaiocco ha solo da pochi giorni chiesto con rogatoria internazionale di procedere all’acquisizione del fascicolo, immaginiamo quanto ricco, da parte delle autorità locali.
Silvia (foto de Il giornale dei navigli)
E solo il 10 aprile, il fascicolo è arrivato in mano al comandante del reparto operativo dei Carabinieri Pasquale Angelosanto, quindi da ora partirà l’intervento ufficiale dei nostri specialisti che potranno andare sul posto a cercare la povera Silvia.
Il capo della polizia di Nairobi afferma con sicurezza che è viva. Bene, bravo. Ci dice che Silvia si sia ferita. Sembra che ci sia il serio rischio che possa esser stata venduta a qualche altra organizzazione criminale somala, ma appunto si pensa, sembra…
Perché abbiamo lasciato lavorare la polizia locale e questi sono i risultati. Cinque mesi buttati. Sperando siano stati i più lievi possibili per Silvia.
Inizia una nuova partita contro chi la tiene nascosta ora. Ci penserà la nostra intelligence, sperando non si sia perso tempo decisivo. Perché ritengo davvero improbabile che un rapimento a scopo di estorsione si congeli per cinque mesi senza una proposta o una rivendicazione. Dalla Farnesina sembrano ottimisti, ma la logica porterebbe a pensieri tutt’altro che positivi.
La domanda rimane sempre la stessa: perché abbiamo atteso cinque mesi per partire?
Siamo a una svolta? Ho chiesto a Pietro Orlandi quali sono le sue sensazioni
L’amicizia che ci unisce mi ha sempre imposto discrezione. Tanto è il legame e la stima per Pietro. Legame che sento fortemente reciproco.
Ma la notizia battuta ieri da tutte le agenzie sembra porre le basi per una nuova epoca nella triste storia che riguarda il destino di Emanuela Orlandi. E allora l’ho chiamato, gli ho chiesto cosa pensa. Cosa sente. Ed ecco le sue parole.
Pietro
«Forse dopo tanta insistenza e istanze presentate hanno capito che e’ il momento di fare chiarezza e mi auguro che questa volontà sia onesta e volta solo a far emergere la verità.»
Ma come si è arrivati dal nulla questo cimitero teutonico? Cos’è questo luogo di cui ora tanto si parla?
«Il camposanto teutonico è interno al Vaticano, non legato alle nostre frequentazioni. Questa pista nasce da indicazioni di fonti non anonime interne al Vaticano e questa lettera anonima arrivata all’avvocata Sgrò è solo l’ultima riguardo le segnalazioni che ci erano arrivate. Non si poteva restare nel dubbio e per questo abbiamo fatto una nuova richiesta al Vaticano per indagare su questa circostanza per poter verificare. L’ingresso al camposanto comunque è’ sempre stato accessibile a tutti, non sono richiesti particolari permessi. Non si tratta quindi di un luogo misterioso.»
Una svolta, una novità assoluta questa che consente, dopo 36 anni ormai, di aprire all’interno del Vaticano un fascicolo che riguarderà la scomparsa di Emanuela. Finalmente. Un cambio di passo che ha come protagonista Laura Sgrò, il legale che sta seguendo da qualche tempo Pietro Orlandi e la sua famiglia: «
Sì. l’avvocato Sgrò conosce molto bene l’ambito del Vaticano, sa come procedere e certamente questa sua capacità di interloquire all’interno dello Stato Pontificio può esser determinante.»
Pietro, che sensazione hai stavolta?
«Noi lo sai, siamo sempre speranzosi. Ho verificato in questi anni tutte le possibili piste e voci. Questa però per me è una grandissima novità. Perché viene da dentro il Vaticano. Spero sia quella giusta.»
Vedi l’intervista di Andrea Purgatori con l’avvocata Laura Sgrò per Atlantide (La7)
Nel mio libro, tutto gli errori nelle indagini. Un solo sospettato, un caso semplice eppure rimasto insoluto
Antonella Di Veroli vive sola, praticamente da sempre. Ha 47 anni e da poco ha acquistato un appartamento a Talenti, un quartiere tra i più “in” di Roma dove liberi professionisti e la nuova borghesia romana si sono insediata da anni qui, in questa collina a due passi da Villa Torlonia. Antonell
Via Domenico Oliva 8 quel giorno
a è una donna sola. Non ha tanti amici, non ha un marito e a 47 anni non ha neanche un fidanzato. Ne ha avuti due negli ultimi anni, ma avevano un difetto. Erano sposati e non avevano intenzione di lasciare la moglie.
Quella seconda domenica di aprile del 1994, Antonella la trascorre fuori Roma in casa di amici. Le hanno anche proposto di rimanere a cena tanto che fretta c’era di tornare a casa ma lei aveva declinato l’invito: «ho un impegno» si era lasciata sfuggire e chi la ospitava sapeva che di più non avrebbe detto. Donna riservata, fin troppo.
Antonella quella sera torna a Roma alle 20:30, mette la macchina in garage, percorre quei 40 passi che la separano dal portone di casa immergendosi in un gorgo che rimarrà un mistero.
Sappiamo solo che si strucca, si mette in pigiama, sistema sul tavolo del salone dei documenti di lavoro perché Antonella è una commercialista e l’indomani deve sbrigare alcune pratiche. Alle 22:45 fa una telefonata ad una amica e una alla mamma. E poi?
Il giorno dopo, nessuno la sente e la vede. Al lavoro non si presenta. La chiamano a casa ma c’è soltanto la segreteria telefonica. Qualcosa non torna: «deve esserle accaduto qualcosa» dice subito la mamma, che allerta le due sorelle di Antonella che corrono in quell’appartamento nel primo pomeriggio, si fanno aprire da Ninive, la vicina di casa che ha le chiavi e che aiuta Antonella nelle faccende di casa, una donna che le colora con la sua compagnia un poco la vita. Ma la casa è vuota, la luce è accesa e i vestiti ordinatamente riposti sulla sedia accanto al letto. Antonella, non c’è. Arriva anche Umberto, l’ex amante e collega di lavoro da una vita. Umberto è un uomo anziano: «ormai siamo soltanto amici» dice agli amici e con Antonella ha un rapporto che dice esser solo di lavoro. Erano stati amanti fino a che Antonella aveva conosciuto Vittorio, un fotografo bello, simpatico, sposato. Si sposato anche lui. ma stavolta a lei era sembrata una storia diversa. Ci aveva creduto. Gli aveva anche prestato dei soldi, si era fidata. «Che scema!» si era poi detta: «che scema a fidarmi di uno così.» Uno che appena la moglie lo aveva scoperto era scappato. Con i soldi.
Antonella
Ma Antonella dov’è? Che fine ha fatto. Passano due giorni insonni e pieni di paure. La mamma chiama “Chi l’ha visto?” e dalla redazione le dicono: «magari è partita per un viaggio. Controllate se in casa c’è tutto. I vestiti, le valigie…» E allora ritornano in quella casa, la sorella di Antonella, Carla, con suo marito, un’amica e poi Umberto, sempre presente, che ormai ha preso a cuore quella scomparsa. Anche troppo dicono i familiari di Antonella infastiditi.
Cercano nell’armadio, ma l’anta centrale non si apre, è chiusa, ma non con la chiave, è incollata. La forzano e lì dentro giace da tre giorni il corpo di Antonella, con un sacchetto in testa e due colpi di pistola nella fronte. Uccisa e chiusa nell’armadio.
Chi le ha sparato, le ha sparato con una pistola calibro 22 attraverso un cuscino e poi, credendo d’averla uccisa le ha messo la testa in un sacchetto di quelli che si usano per fare la spesa. E inconsapevolmente l’ha soffocata.
Le indagini iniziano come sempre in questi casi partendo dalle conoscenze della vittima. Già ma quali sono le frequentazioni di una donna come Antonella, di cui in fondo nessuno conosce molto? Ai carabinieri i familiari fanno soltanto due nomi: Vittorio Biffani e l’onnipresente Umberto Nardinocchi, gli unici due uomini che Antonella aveva lasciato trapelare nelle pieghe dei suoi silenzi.
E su questi due, su Umberto e Vittorio, che si concentrano da subito le indagini.
Indagini infarcite di errori così grossolani da sembrare grotteschi, errori e dimenticanze che iniziano subito nella casa di via Domenico Oliva dove Antonella è stata uccisa, quando ci si perde gettandolo tra i rifiuti il sacchetto con cui la testa di Antonella era stata avvolta. Un sacchetto che avrebbe portato subito ad isolare le impronte dell’assassino. Ma non è finita qui perché non vengono repertate neanche le impronte della vittima in fase di primo sopralluogo e di autopsia, rendendo impossibile una valutazione attenta sui reperti trovati (bicchieri, piatti ecc.) e non permettendo di agire “per sottrazione” nella determinazione di quelle dell’omicida.
Ai due sospettati però viene fatto il test dello STUB, anche se ormai dal momento dello sparo sono passati già tre giorni. E tutti e due risulteranno positivi. Ma Umberto, che fortuna, proprio pochi giorni prima della morte di Antonella era andato a sparare in un poligono, mentre Vittorio non ha nessuna giustificazione da portare. Lui ha un alibi sostenuto dai suoi due figli ormai maggiorenni e dalla moglie, come del resto lo ha Umberto, ma non può spiegare perché quello stick di cera che gli hanno strofinato sulla mano sinistra, lui che è destrorso, contenga delle particelle di polvere da sparo.
E poi c’è quel debito. Quei 42 milioni che Vittorio aveva ricevuto da Antonella e che non aveva mai restituito, nonostante i solleciti per la verità neanche così pressanti della vittima, che dopo la scoperta della loro relazione si era persa in accese discussioni con Vittorio e con la moglie di lui più sentimentali che economiche. Eppure, basta quello per portarlo a processo e sbatterlo con una foto a nove colonne in prima pagina su tutti i giornali. Per i giornali è lui l’omicida della donna nell’armadio. Sui giornali e nelle televisioni campeggia la sua foto e soprattutto sono descritti momento per momento la sua intimità con Antonella. Che leggono tutti, sua moglie, i figli e i suoi committenti di lavoro che infatti non lo faranno più lavorare.
Vittorio biffani (gentile concessione Unita)
Ma è stato Vittorio? Il processo dirà di no, non è stato lui. Lui non c’era in quella casa quella notte. E quello STUB risultato positivo si scoprirà, soltanto anni dopo durante il processo d’appello, che non era neanche il suo. Lo avevano invertito per errore con quello di qualcun altro.
E allora se non è stato Vittorio, chi è stato?
Analizzando le carte, le testimonianze e i pochi segni che Antonella ha lasciato nella sua vita ci si chiede da subito perché non si è indagato anche su Umberto, che frequentava Antonella con assiduità, che era stato in qualche modo estromesso sentimentalmente dai pensieri della vittima e che comunque con lei continuava ad avere un rapporto morboso e sempre troppo invadente, tanto da gestirle lavoro amicizie interessi economici e finanche i rapporti con il condominio. Eppure, lui, come altre due figure misteriose e reticenti che affiorarono nel buio della vita di Antonella durante le indagini non furono mai coinvolti. Il colpevole per il PM Nicola Maiorano che condusse quell’indagine poteva esser solo Vittorio Biffani.
E poi ci sono le sorprese: per esempio, mancano due reperti fondamentali:
1 – il pianale dove Antonella è stata adagiata e dove c’era un’impronta e del sangue.
2 – L’anta con lo stucco utilizzato per sigillarla in quella maniera così macabra, anta che aveva conservato certamente molte tracce dell’assassino.
Ma questi due reperti sono stati smarriti nel deposito atti giudiziari! Spariti come era sparito quel sacchetto che ha ucciso Antonella e che avrebbe probabilmente consegnato il giorno dopo il nome dell’omicida evitando questa indagine sbagliata che ha logorato i familiari di Antonella Di Veroli e rovinato per sempre il nome di Vittorio Biffani.
Chi ha ucciso dunque Antonella?
Una donna sola, che quella notte ha aperto a qualcuno con cui era molto in confidenza, tanto da aprirgli in pigiama. Qualcuno di cui Antonella si fidava, ma il cui nome si era tenuta per sé. Dopo tante delusioni stavolta non lo aveva detto a nessuno. E questa sua riservatezza le è stata fatale.
Antonella quella notte ha aperto la porta ad un assassino che l’ha uccisa, l’ha chiusa nell’armadio senza pietà e poi è uscito senza far rumore, sparendo da quel palazzo per sempre, percorrendo quei 40 passi a ritroso e spegnendo la vita di una donna tradita soltanto dalla sua voglia di amare.
Mauro Valentini
Il mio libro che racconta questo caso è: “40 passi – l’omicidio di Antonella Di Veroli – Edizioni Sovera
Un appuntamento atteso dieci anni. Un nuovo incontro a Dubai tra musica ed emozioni
Arriva il nuovo spettacolo teatrale di Antonio Amoruso, già autore della commedia surreale “Non è una piscina in giardino”: “Appuntamento al Burj Khalifa”, dall’11 al 14 aprile, Teatro Della Dodicesima, Spinaceto (Roma)… con finale a sorpresa!
Siamo a Dubai. L’attesa e la bellezza vertiginosa di una notte che cambia tutto.
Anita e Dario si incontrano davanti al grattacielo più famoso e lontano, per una cena.
L’appuntamento era stato fissato 10 anni prima, quando Anita aveva lasciato Dario per tentare il successo come popstar negli States. Era stato Dario a fare la richiesta folle di quella cena, a 10 anni di distanza, in un luogo lontano, per aggrapparsi all’insensata speranza di non perderla per sempre. Dalla partenza di Anita fino alla cena, nessun contatto. Quando si ritrovano in quel ristorante, nulla sarà più come prima… A fare da sfondo alle loro storie, quasi come un vento del deserto, una musica che Dario ha scritto e dedicato ad Anita; assai diversa, pensa lui, dalla canzone che aveva portato al successo la donna. Ma che in realtà è incredibilmente simile. Forse perché c’è un sottile filo rosso che inconsapevolmente unisce le loro anime. E il destino tira quel filo.
«Ho cercato di spogliarmi per quanto possibile, dei panni dell’autore per poter affrontare con maggiore senso critico la messa in scena di questo lavoro teatrale» le parole del regista Antonio Amoruso. «Il risultato è un lavoro dal contenuto profondamente romantico, reso tangibile attraverso un forte legame tra musica e scenografia – vagamente onirica – e soprattutto una interpretazione che il pubblico – ne sono certo – non mancherà di apprezzare per il suo forte coinvolgimento emotivo.»
Con:
Emanuela Caruso
Gianpiero Pumo
Alessandra Lanzara
Maria Concetta Liotta
Nicole Petruzza
Testo, regia e musica: Antonio Amoruso
Aiuto regia: Martina Pasquini
Responsabile di produzione: Fabio Pasquali
Scenografia: Teresa Fano
Trucco e acconciature: Stella Bignoli
Costumi: Sara Sechi
Teatro della Dodicesima, Via Carlo Avolio, 60 – Spinaceto, Roma
11,12,13 aprile h. 21.00
14 aprile h. 18.00
Biglietto intero € 10,00
convenzione per gruppi da 10 e studenti del settore € 8,00 a persona.
Per info e prenotazioni:
Tel. 065073074 dal lun al venerdì dalle 15.00 alle 19.00
Netflix infatti ha appena annunciato che Suburra La Serie tornerà con una nuova stagione. Le prime due sono state un grandissimo successo, diciamo pure che la seconda non ha replicato gli ascolti della prima, ma del resto era difficile ripetersi e poi la difficoltà della trama, più politica e meno da “action-movie”, l’ha forse un po’ penalizzata.
Ma Suburra ha se non altro già un primato: quello di esser la prima serie completamente italiana inserita nel circuito Netflix.
Eppure…
Alessandro Borghi
Sorvolando sulla trama che in molti conoscono e che se non conoscono non posso proprio per questo fare spoiler, qualche riflessione mi sento di farla.
La regia e la fotografia sono di passo chiaramente cinematografico, l’afflato narrativo sembra appunto quello di un film d’autore e del resto la mano di Michele Placido alla regia, pur coadiuvato da altri due registi come Andrea Molaioli (La ragazza del lago) e Giuseppe Capotondi (coregista anche della serie TV Berlin Station) sta lì a dimostrarlo-
Ma insieme a questo indubbio merito ci sono anche molti, secondo me troppi limiti rispetto alla storia narrata dal libro di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, o anche e soprattutto dal bellissimo film omonimo di Stefano Sollima.
Limiti per esempio legati ad una certa staticità della location, spesso imbarazzante. Comprendendo anche tutte le esigenze di costruzione e di semplificazione riferiti ai personaggi, i luoghi dove accadono gli avvenimenti sono sempre gli stessi. Per cui i personaggi li ritrovi sempre o sulla spiaggia o al maneggio o tutt’al più sotto la vela di Calatrava. Qualcuno poi dovrebbe erudirci sul come faccia Samurai a esser sempre nel luogo giusto al momento giusto, cogliendo sempre in sella al suo scooter tutti ma proprio tutti i movimenti dei dieci personaggi che ruotano attorno alla storia narrata.
Claudia Gerini
Ma il limite più evidente è quello legato alla costruzione in sceneggiatura di alcuni personaggi, che mal si legano ad altri, davvero belli e strutturati. Certo è che molto conta anche la qualità dell’attore, nella serie come al cinema del resto. Alessandro Borghi per esempio, specie nella prima stagione, si eleva su tutti gli altri prendendo la scena quasi con prepotenza, come farebbe in effetti quell’Aureliano Adami che interpreta, ma anche molto a loro agio appaiono per esempio la rediviva Claudia Gerini e Filippo Nigro, che per esempio deve supplire con la sua classe alle evidenti semplificazioni in sceneggiatura operate sul personaggio del politico prima idealista poi affarista. Ma quello che riesce a Nigro purtroppo non riesce a molti altri, e così trovo debolissima e piatta la recitazione di Francesco Acquaroli che certo non ha la stoffa del Samurai di Claudio Amendola al cinema. mentre provo sincera ammirazione per l’impegno che ci mettono sia Giacomo Ferrara che Barbara Chichiarelli nel tessere una struttura attorno alle esili scritture di Spadino e di Livia Adami.
Francesco Acquaroli
Ma per alcuni il gioco diventa troppo difficile. Impossibile per esempio per Eduardo Valdarnini che, nel ruolo del figlio del poliziotto con ambizioni da boss non convince mai, inceppando continuamente la fluidità della narrazione, anche se certe scorciatoie di scrittura non potevano aiutarlo: Come si può pensare infatti che un fannullone buono a nulla come lui, prima riesca a realizzare un agguato contro uno dei boss più temuti di Roma, poi in pochi giorni si trasformi in un accreditato socio in affari di due come Spadino e Aureliano, fino al capolavoro dell’assurdo, diventando in tre mesi addirittura ispettore di Polizia con poteri assoluti nella gestione del personale, senza concorso e senza tirocinio… Francamente sembra troppo… anche per una serie TV.
Anna è una donna come tante. Anzi, meglio di tante altre. Anna è innamorata dell’amore, della vita e ha tanti sogni, tutti raccolti dentro i suoi vent’anni. Poi conosce Lorenzo, bravo, preciso, perfetto… troppo. E quel troppo affiorerà davanti ai suoi occhi a poco a poco, divorando i sogni e il sorriso di Anna… Chiudendola in gabbia.
Maria Lovito
“La gabbia di Anna” (Edigrafema Edizioni) è l’esordio letterario di Maria Lovito, che ha per professione (è un legale) e per passione seguito i percorsi difficili di riscatto delle tante Anna che vivono e soffrono in questo paese. Un paese che ancora non si è accorto che il Femminicidio è un’emergenza sociale. E che queste storie, come quella di Anna, possono accadere. Possono aver come spesso accade un epiologo drammatico. E possono accadere a tutte.
Impossibile raccontare il libro senza svelare elementi che lasceremo ai lettori, perché tanta è la velocità degli avvenimenti e degli spunti emozionali e narrativi che Maria Lovito sfiora, parola dopo parola, con empatia ed eleganza, senza percorrere mai le strade sicure del pietismo ma al contrario regalando a chi legge una speranza, scovata, setacciata e riportata alla luce dal buio di quei momenti della vita di Anna. Momenti così drammatici e pieni di solitudine.
Una donna fragile? In balia degli eventi? No… Anna scoprirete che è molto di più.
Un libro che si legge con grande passione, scritto benissimo, delicata voce narrante di un incubo dorato, di una casa che prima sembra accoglierla insieme a Lorenzo in una nuova vita e che poi, pian piano, offrirà allo sguardo limpido di Anna il suo lato più sinistro. Il suo esser Gabbia.
Un libro scritto con parole di speranza.
Mauro Valentini
LA GABBIA DI ANNA
Autore: Maria Lovito Titolo: La gabbia di Anna ( www.edigrafema.it ) ISBN: 978-88-98432-23-3. Pagine 104 Prezzo: 10,00 euro