Mauro Valentini

Scrittore & Giornalista

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Povera Meredith – 15 anni fa il delitto di Perugia

Un colpevole (ormai libero) e due assolti

È una notte terribile quella tra il primo e il 2 novembre del 2007 per Perugia.

E certo Halloween non c’entra. Da una casa in via della Pergola una donna chiama il 112 impaurita. Qualcuno al telefono le ha detto che ha una bomba nel suo bagno! I Carabinieri arrivano seppur sorpresi, siamo a poche centinaia di metri dalla Fontana Maggiore, cuore medievale della città ma qui sembra già di esser in campagna. Chi può aver mai messo una bomba in un posto come questo. Difatti la bomba non c’è, e intorno alle 22:00 i militari tornano in caserma. Ma la mattina del 2 novembre la stessa donna trova due cellulari a terra sempre nel giardino e consegna subito alla Polizia Postale. Due veloci riscontri e gli agenti capiscono che quei due Nokia sono di proprietà di Meredith Kerscher, studentessa londinese da poche settimane a Perugia per il progetto Erasmus. Anche Meredith vive in via della Pergola, insieme ad altre tre studentesse, due italiane e un’americana di nome Amanda Knox.

Amanda e Raffaele

Quando alle 12:41 gli incaricati della Polizia vanno in via della Pergola trovano Amanda con il suo fidanzato Raffaele Sollecito fuori dalla porta. Hanno chiamato i Carabinieri perché hanno trovato il vetro della finestra rotto, e la camera di una delle inquiline sottosopra. Amanda che ha passato la notte a casa di Raffaele era tornata per farsi la doccia e oltre al trambusto in casa ha visto anche tracce di sangue nel bagno. Raffaele ha chiamato il 112 soprattutto perché la camera della Kerscher è chiusa a chiave e lei non risponde. A quel punto si sfonda la porta e in quella stanza, sotto il piumone che ne cela il corpo, c’è Meredith in un lago di sangue, uccisa. Le indagini puntano i fari subito su Amanda e Raffaele. È il loro comportamento che insospettisce subito gli inquirenti, legato anche alle loro dichiarazioni che diventano subito caotiche.
Un elemento tra i tanti per esempio è quella doccia che Amanda dice di aver fatto nonostante la casa a soqquadro, il sangue in bagno e la porta di Meredith chiusa a chiave. In una ridda di racconti che sconfessano nel giro di poche ore Raffaele e Amanda cambiano versione più volte, fino a che, tre giorni dopo, Amanda indica come assassino di Meredith il proprietario del pub dove saltuariamente Amanda lavora, Patrick Lumumba.

Nel verbale con cui la ragazza americana accusa Lumumba tutto è così poco chiaro ma per gli inquirenti basta ad arrestare lo straniero. Ma non certo a scagionare i due fidanzati. Il gip Claudia Matteini sembra non aver dubbi: l’assassino è Lumunba che è attratto sessualmente da Meredith e ha potuto contare sulla complicità di Amanda e Raffaele per un gioco erotico finito malissimo. Tutto chiaro? No perché Lumumba ha un alibi perfetto e non ci sono tracce sue nella casa, che invece è piena di evidenze per un altro soggetto della Costa d’Avorio, Rudy Guede.

Rudy Guede libero

Di lui ci sono impronte e tante, troppe tracce biologiche, prove inequivocabili della sua presenza attiva sulla scena del crimine. Guede è fuggito nel frattempo in Germania e una volta catturato racconta la sua versione: lui non ha ucciso Meredith, però ammette di esserci stato in quella casa e del resto negare era impossibile, ammette di aver avuto un approccio sessuale ma che poi mentre era in bagno ha udito un grido e sorpreso due giovani in casa che fuggivano. Così, dopo aver scoperto il cadavere di Meredith e aver tentato a suo dire di salvarla scappa perché impaurito. Per Rudy quei due sono Amanda e Raffaele. Che vengono arrestati.

Il processo di primo grado, il 5 dicembre del 2009 condanna Amanda e Raffaele alla pena di 26 e 25 anni di reclusione, per i giudici sono stati loro, insieme a Rudy Guede ad uccidere al termine di un gioco erotico con costrizione sulla povera Meredith. I due procedimenti sono separati in quanto Guede chiede e ottiene il rito abbreviato con condanna definitiva a 16 anni per violenza sessuale e concorso in omicidio. Ma in concorso con chi?

Qui inizia un’altalena di giudizi che travolgerà le vite di Amanda e Raffaele. Gli elementi contro di loro, oltre le dichiarazioni di Guede sono essenzialmente due: Una traccia non completa di DNA in un gancetto del reggiseno di Meredith attribuita dai periti a Sollecito e tracce di solvente e di DNA della Knox in un coltello in casa di Raffaele. Certo, Amanda frequentava la casa del suo fidanzato come Raffaele quella di lei, ma questi furono i punti centrali dei processi.

E gli indizi che assurgono a valore di prova non reggono nel secondo processo davanti la Corte d’Appello che, due anni dopo, il 3 ottobre del 2011, assolve i due imputati dal reato principale per non aver commesso il fatto, condannando la sola Knox a 3 anni, già scontati, per il reato di calunnia contro Lumumba. I due ormai ex fidanzati sono quindi scarcerati, tra le proteste e le minacce. Ci si aspetta dunque che il sipario cali dopo 4 anni di reclusione e di accecamento mediatico per Raffaele e Amanda. Quando escono le motivazioni della sentenza, la frase che più colpisce è quella che indica come probabile esecutore unico Guede, di fatto stravolgendo proprio il processo ormai chiuso sull’ivoriano. Amanda corre il giorno dopo la sentenza a Seattle salutando per sempre l’Italia, perdendosi il colpo di scena che riserva la Corte di Cassazione, che il 26 marzo 2013 annulla la sentenza di assoluzione rimandando il tutto alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze. L’alta Corte è durissima con la sentenza che annulla, rilevando illogicità e contraddizioni.

Si ricomincia dunque, tornando al punto di partenza, quelle minime tracce lasciate dai due ragazzi sul luogo del delitto e sul coltello. Raffaele Sollecito dopo un periodo di vacanza a Santo Domingo che aveva fatto presagire ad una fuga rientra per assistere al quarto processo a suo carico, mentre Amanda segue da Seattle. Il 30 gennaio 2014 i giudici di Firenze, condannano Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi di reclusione e Raffaele Sollecito a 25 anni, accogliendo le richieste del Procuratore Alessandro Crini. Una sentenza sorprendente nelle motivazioni, ove si fa riferimento ad un teste che vide Amanda e Raffaele lontani dalla villetta nelle ore compatibili con l’omicidio e sul cambio di movente e che si trasforma da sessuale a una semplice lite per le pulizie della casa. Pur restando l’evidenza della contaminazione sessuale di Guede.

Il clima in cui si svolge l’ultimoatto di questa triste vicenda è tesissimo, per le polemiche riguardanti da un lato la lontananza di Amanda dall’Italia e dall’altra la grande discussione sui metodi di rilevazione delle prove, specie quelle infinitesime di Raffaele sul gancetto di Meredith. La sentenza della Suprema Corte arriva il 27 marzo 2015è pronunciata dal giudice Gennaro Marasca dopo 10 ore di camera di consiglio.

Essa assolve dall’accusa di omicidio Sollecito e Knox, “per non aver commesso il fatto”, cancellando il secondo giudizio d’appello con la formula dell’”annullamento senza rinvio” . Secondo i giudici, il «complesso probatorio era fortemente contraddittorio. assurdo sarebbe stato disporre un nuovo dibattimento potendo contare su indizi così labili». Una sentenza forte, pronunciata nel merito e non nella semplice legittimità del procedimento e che sarà destinata per sempre a far discutere.

Mauro Valentini

Emanuela Orlandi – La verità NON sta in cielo

Una trasmissione: Crimini e Criminologia (andata in onda domenica 12 giugno)  completamente dedicata al Caso Orlandi. Uno studio, quello di Cusano TV. Un giornalista, Fabio Camillacci, che conduce e che conosce benissimo tutta la vicenda per arguzia e vicinanza alla famiglia Orlandi e al fratello Pietro.
Pietro Orlandi, simbolo vivente di una battaglia per la verità che manca da troppo tempo.
Pietro Orlandi, che è negli studi ospite di Camillacci, insieme alla sua avvocata Laura Sgrò. Una presenza la loro, che, si comprende dal primo minuto di trasmissione non sarà solo “presenza” e ricordo. No, perché Pietro ha urgenza di narrare ancora. Dopo 39 anni, con la stessa energia e precisione chirurgica. Raccontare l’enorme assurdità di questo intrigo Vaticano che ha portato via quel 22 giugno 1983 sua sorella Emanuela.

L’occasione è data dall’annuncio dell’annuale Sit-in che si terrà mercoledì 22 giugno dalle 18:00 sotto Castel Sant’Angelo, in largo Giovanni XXIII, un incontro dal titolo inequivocabile: “Il Papa deve consegnare la verità alla Giustizia”.
La verità, quella che tutti aspettano da 39 anni: “che potrebbe esser vicina” dice Pietro dai microfoni di Cusano TV.
Ma quali sono questi elementi, che Camillacci definisce senza girarci attorno: “rivelazioni”?

Laura Sgrò spiega: “Papa Francesco a febbraio ha dato riscontro a una mia lettera, concordata con Pietro. Una lettera in cui noi abbiamo indicato uno scenario possibile dopo alcune rivelazioni di personaggi importanti in Vaticano. E Francesco ha risposto scrivendoci in sostanza: condividete con l’ufficio del promotore di Giustizia in Vaticano le informazioni che avete. Noi lo abbiamo fatto subito, ma al momento nessuno ci ha risposto. E sono già passati cinque mesi”.

Laura Sgrò

Occorre dire che il Papa ci ha messo nove anni per rispondere in senso compiuto, e finalmente, dopo quella sua frase sussurrata a Pietro e alla mamma di Emanuela quella mattina quando, appena insediatosi, incrociandoli davanti la chiesa di Santa Marta. “Emanuela sta in cielo” aveva detto. Salvo poi, escludere e divincolarsi da ogni possibile richiesta di chiarimento. Almeno finora.

Già perché ora, la sua risposta e l’invito a procedere, sembra una apertura importantissima. Ma che ancora dopo cinque mesi non ha avuto un seguito. Neanche dopo il sollecito del Papa? Possibile che neanche Francesco abbia il potere di aprire la strada alla verità?

Laura Sgrò non ha nascosto la propria delusione: “Noi abbiamo mandato subito richiesta alla Cancelleria del Tribunale del Vaticano. Subito. Dando disponibilità a un incontro. Ma al momento nessuno ci ha contattato. Il Papa ha detto che è sua volontà che questo avvenga eppure…ancora nulla.”

Fabio Camillacci

Ma quali sono gli elementi a disposizione?
Pietro non vuole fare nomi, ma i nomi li ha. E ha anche elementi importanti e decisivi, che però, dice: “Vorrei farli a loro e verbalizzare il tutto davanti alla Giustizia del Vaticano, così da doverli finalmente costringerli a indagare al loro interno e interrogare le persone che sanno”.
Evidentemente la fonte è di quelle autorevoli. Pietro è sicuro e non si può dubitare certo della sua valutazione e di quella della sua avvocata. Loro conoscono bene gli intricati meandri di quello Stato. Loro sanno quanto forte potrebbero essere certe rivelazioni.

Ma possibile che ci sia qualcuno che non dia riscontro a una volontà del Papa?
Cosa ancora c’è da omettere sul caso? Cosa nascondono, e cosa c’è da nascondere intorno a una vicenda sempre volutamente tenuta sotto silenzio dal Vaticano, ma che evidentemente crea da quel giorno preoccupazione e imbarazzo?

Il centro delle rivelazioni di cui Pietro è venuto a conoscenza, ruotano tutte attorno a quel Cimitero Teutonico e alle tombe che sono state aperte tre anni fa. Sembrava una vicenda poco importante, o meglio, certamente si avevano meno speranze rispetto all’esplorazione della tomba di De Pedis dentro Sant’Apollinaire, ed in effetti così è stata lasciata passare. Ma non secondo le fonti con cui è venuto a contatto Pietro. Persone che evidentemente conoscono molto bene cosa c’è dietro quelle tombe, trovate vuote ma con una intercapedine e una stanza sotterranea realizzata in cemento armato, stanza quindi moderna dato il materiale utilizzato e forse centro esatto di quello che Michel Maritato, presidente di Assotutela e ospite della trasmissione ha definito senza mezzi termini: “l’ombra più oscura tra i misteri italiani”.

Pietro però non ha parlato solo di queste fonti importanti: Pietro è tornato alla dichiarazione del giudice Capaldo. E all’incontro che egli ebbe nel 2012 con alte personalità del Vaticano, quando Papa era Ratzinger. Pietro ha riportato ancora una volta il racconto del giudice, che ebbe la conferma che una soluzione sarebbe stata possibile, e che gli uomini del Vaticano avrebbero potuto far ritrovare il corpo.

“Una ammissione chiara e palese di esser a conoscenza dei fatti. Che però ha portato il Giudice Pignatone, capo della Procura di Roma, a togliere l’inchiesta a Capaldo. E poi subito dopo ad archiviare tutto. E la ciliegina sulla torta è arrivata da poco, quando Pignatone, finito il suo mandato, è stato nominato da Papa Francesco capo del Tribunale del Vaticano. E quindi, ora, per chiedere nuove indagini, dovremo chiedere pensate un po’, nientemeno che a Pignatone!”

Pietro è preciso e duro come sempre: “Io sono sicuro che la verità sta in Vaticano. Io ho visto messaggi e ho letto cose terribili. Che se verbalizzassi poi li costringerebbe a fare azioni inequivocabili.”

La soluzione quindi è nel Cimitero Teutonico?
L’avvocata Sgrò è sicura: “Da quel cimitero non ci dobbiamo spostare. Abbiamo indicato una tomba nello specifico, e su quella occorrerebbe indagare per comprendere se c’è traccia di Emanuela. Sotto quella tomba c’è quella stanza in cemento.  E le fonti che abbiamo, che specifico esser non anonime come qualcuno ha detto, ma solo coperte da segreto, ci portano a credere che siamo finalmente nel posto giusto”.

Laura Sgrò quindi, guardando la telecamera, ha rivolto un appello al Cardinale Re, che era un personaggio apicale negli anni della scomparsa di Emanuela. Ed è uno dei possibili protagonisti ancora in vita. Un cardinale che ha dichiarato addirittura che di Emanuela lui non sa nulla e che quello che sa lo ha ascoltato e letto dalle Tv e dai giornali. Eppure lui, all’epoca era assessore agli affari generali: “Cardinale, è impossibile che lei non sappia nulla. Io sono qui, pronta ad ascoltarla. Ci dica quello che sa.”

Mauro Valentini

LA TRASMISSIONE INTEGRALE :

Ritroviamo Tindaro Bisazza

Ricevo da Agata Bisazza, sorella dello scomparso Tindaro Bisazza, questo appello che volentieri pubblico nell’anniversario della scomparsa.

Il giorno 8 aprile 2013, mio fratello Tindaro era da soli quattro giorni ospite in una struttura riabilitativa, Villa Bianca a Castanea delle Furie, una frazione di Messina, per i suoi problemi di salute.
Alle 4 del mattino esce dalla finestra del bagno e va in un bar della zona dove gli viene offerta la colazione, da quel momento è sparito nel nulla. Nessuno ha visto nulla.

Tanti sono stati gli appelli fatti dalla trasmissione di “Chi l’ha visto?” nelle tv locali, nei giornali s locali, sul Settimanale Giallo, su Cronaca Vera ecc …foto affissi direttamente da me in Sicilia e fino a Foggia, approfittando dei viaggi organizzati per affiggere foto di mio fratello ovunque andassi.
Solo qualche segnalazione che non ha avuto alcun riscontro. La mia paura  è che non continuino a cercalo, che è stato dimenticato in un fascicolo chiuso e messo da parte. Già dall’inizio le ricerche sono andate a rilento perché è stato catalogato, se così si può dire, “allontanamento volontario”, senza tenere conto delle sue condizioni di salute.

Le ricerche sono iniziate dopo circa tre mesi, a seguito del mio incontro con il magistrato del tribunale di Messina a cui è stato assegnato il caso. Sin dall’inizio ho richiesto più volte che venisse fatta una ricerca con i cani anche quelli molecolari, non è mai stata fatta. Mi sono ritrovata da sola a lottare perché mio fratello venisse ritrovato, andando anche alla stazione ferroviaria di Messina per vedere se potesse essere fra quelle persone che dormono sulle banchine. Fino a questo momento non ho avuto più sue notizie. La mia paura è che sia caduto in qualche burrone e che nessuno ha potuto aiutarlo, in quanto quella è una zona boschiva.

Chi ha visto mio fratello, chi ha avuto notizie anche riportate si può rivolgere a me personalmente scrivendomi alla mia email: [email protected] o alla trasmissione Chi l’ha visto? Chiamando il numero 068262 oppure alle forze dell’ordine.

Aiutatemi a trovare mio fratello.

Agata Bisazza

Totti e lo schifo del gossip (e di Dagospia)

Chi difende i figli di Francesco e Ilary?

Ancora una volta Dagospia supera se stessa in vergogna. Ancora una volta però, davanti a questa schifosa messa in piazza di questioni private ai danni di persone pubbliche, tutti dico proprio tutti i colleghi della carta stampata delle TV e dei social media hanno rimbalzato la notizia.
Ma che notizia sarebbe?

Due adulti di 45 e 40 anni che potrebbero aver deciso di chiudere la loro relazione?
Due che si chiamano Totti e Blasi, certo, ma che in casa loro sono papà Francesco e mamma Ilary.
Davvero, amici si fa per dire, colleghi si fa per dire di Dagospia, pensate che tutto si possa metter in piazza così?
Avete notizie di un possibile ritorno nell’organico della Roma di Totti? No.
Avete notizie di una possibile conduzione di Blasi al prossimo Festival di Sanremo? No.

E allora come vi permettete di parlare di una mamma e un papà che pur dando per veritiera la loro crisi stanno cercando di salvaguardare tre ragazzini di 16, 14 e 5 anni? CINQUE ANNI! 
Ma vi rendete conto, giornalistoni senza vergogna di quello che avete fatto?
Ma se qualcuno mettesse sui social le vostre crisi di coppia, le vostre scappatelle presunte con tanto di nomi e cognomi dei “trasgressori” e vostra figlia venisse a chiedervi conto di questo, come vi sentireste?

Chi difende i bambini mentre voi ridete e vi date di gomito parlando di Totti e Blasi?

Con grande amicizia si fa per dire e sincerità ve lo dico così come mi viene: Io ho una tessera di giornalista pubblicista. Non valgo molto. Non sono famoso, non sono un opinionista glamour, mai lo sarò. Ma la mia tessera a fianco la vostra non la metterò mai.

A Cristian, a Chanel e a Isabel, a voi ragazzi, che avete avuto la fortuna di aver due genitori così belli, ricchi e amorevoli, va ora tutta la mia solidarietà.
Perché niente e nessuno può arrogarsi il diritto di metter in piazza questioni così intime riferite a voi bambini.

Perché chi ha rimestato fiele per qualche clic in più sulla vostra mamma e il vostro papà sono proprio giornalisti da niente.
Non sono nessuno.

Mauro Valentini

Ci lascia Donatella Raffai

Ha insegnato a tutti che la televisione può essere al servizio del cittadino

Si è spenta poche ore fa Donatella Raffai, la storica conduttrice di Chi l’ha Visto?

Nata a Fabriano nel 1943, è stata volto amico di trasmissioni sempre di servizio, collaborando anche con Corrado Augias per Telefono Giallo.

Aveva lasciato per scelta e con la sua consueta discrezione la televisione dal 2000.
Chiunque ha scelto di fare il mestiere di raccontare la cronaca e chi si è impegnato nell’aiuto alle famiglie delle persone scomparse deve tanto a lei, che con garbo, amore e con grandissima professionalità ha saputo scavare nei misteri e non far sentire sole le famiglie delle vittime.

Personalmente per me che ho deciso di provare a esser un giornalista proprio attraverso la passione proprio per Telefono Giallo e Chi l’ha Visto, è un giorno di lutto.
Alla famiglia, al marito, ai figli e ai nipoti giunga il mio abbraccio.

Mauro Valentini

 

Marta Russo e quel senso di ingiustizia

Testimonianze a orologeria per condannare e salvare (quasi) tutti

«Per Marta Russo non è stata fatta Giustizia»
(Sandro Provvisionato)

«Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro sono manifestamente innocenti.»
(Paolo Mieli)

Si torna a parlare dell’omicidio Marta Russo in TV, occasione data dal docufilm andato in onda giovedì 21 ottobre in prima serata dal titolo: “Marta – Il delitto della Sapienza“, una coproduzione Rai Documentari e Minerva Pictures, prodotta da Gianluca Curti e Santo Versace, per la regia di Simone Manetti, scritto da Emanuele Cava, Gianluca De Martino e Laura Allievi.
Un documentario scritto e diretto benissimo, che scorre su due binari: il primo quello della vita di Marta, pieno di emozioni, dei suoi sogni e dei suoi pensieri, ritrovati dalla sorella Tiziana dentro a diari che Marta aveva scritto negli anni precedenti al suo omicidio. Parallelamente poi si ascoltano i protagonisti del processo che ha visto, dopo cinque gradi di giudizio e mille polemiche, condannati Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro per omicidio colposo e per favoreggiamento.

Chi vi scrive, nonostante quella vicenda giudiziaria l’ha seguita, studiata e ci ha scritto un libro e uno spettacolo teatrale, svelando quello che non tornava dopo quei cinque processi che hanno scontentato tutti, ha potuto rivivere con emozione e diciamolo pure, con rabbia certi passaggi di una vicenda che ha portato via la vita di una ragazza piena di speranze e amata da tutti e che ha prodotto uno dei processi più incredibili della pur incredibile storia giudiziaria italiana.

Non voglio elencare quello che palesemente non combacia nelle testimonianze che hanno portato in carcere Scattone e Ferraro, ma ci sono delle evidenze su cui tutti dovrebbero ragionare affinché un processo come quello per la morte di Marta non accada mai più.
A cominciare dai metodi di raccolta delle prove, con test su particelle prodotte da freni a disco scambiate per tracce di sparo, continuando con il metodo di ricerca della dichiarazione da parte degli inquirenti, condito da neanche troppo velate forzature su cui nessuno ha poi colpevolmente agito disciplinarmente, passando per l’abbandono di piste investigative semplici e dirette verso almeno una decina di personaggi che maneggiavano armi all’interno della Sapienza, che secondo la DIGOS erano legati ad associazione eversive e che non si chiamavano né Scattone e né Ferraro.

Quello che mi ha colpito invece sono state le dichiarazioni dell’allora capo della Mobile Nicolò D’Angelo, che nel documentario parlando degli accusati, spiega che da loro ha avuto: “sensazione di mancanza di empatia” verso la vittima, arrogandosi conoscenze psicologiche che non mi risulta abbia e che possono avere dignità in una fiction non nella vita vera. Dove contano le prove, non le sensazioni.

Ho sussultato davanti alle immagini che mostravano il PM Carlo Lasperanza dopo pochi minuti dallo sparo già affacciato alla finestra del bagno di Statistica, dove per le pulizie avevano agito poche ore prima personaggi segnalati con informativa dalla DIGOS proprio come possibili autori dello sparo. Quella stessa finestra indicata dal perito della Corte, il Professor Torre, come il luogo da dove è partito il colpo. Lui, Lasperanza,  era lì, e lui e gli altri dietro di lui, sono invece saliti diversi giorni dopo al primo piano, hanno cercato e non trovato prove nell’Aula 6 e hanno però tralasciato la pista iniziale.

E pensare che poi… due anni dopo quello sparo, viene ucciso il professor D’Antona per mano delle nuove Brigate Rosse. E uno dei componenti del commando è quello che quella mattina, quando Marta viene colpita, ha appena fatto le pulizie proprio lì, nel bagno di Statistica! Che coincidenza vero?

“Le pistole che abbiamo sequestrato ai dipendenti della società di pulizie non erano compatibili con quella che ha sparato a Marta Russo” dice Lasperanza alle telecamere di chi documenta, come se chi avendo sparato e ucciso una ragazza innocente certamente per sbaglio, vedendo che tutte le televisioni e finanche il Presidente della Repubblica alla ricerca della verità, potesse ingenuamente conservare in casa l’arma del delitto.

E poi la video cassetta che viene mostrata durante il processo, con le modalità di interrogatorio della teste chiave, Gabriella Alletto, che viene interrogata con metodi certamente inusuali e addirittura in presenza del cognato ispettore. Gabriella che nei dialoghi ivi registrati si sente dire al cognato:

«Io non ce stavo là dentro Gi’… te lo giuro sulla testa dei miei figli, ha sbagliato la Lipari… Stavo nella quattro… Io sono andata nella stanza quattro per fare un fax, la Lipari mi ha visto lì. Da sola… a fare un fax, che la Lipari lo può di’… io ci ho anche le prove che ho fatto il fax…»

E poi, il 14 giugno, un mese e cinque giorni dopo lo sparo, d’improvviso invece, Gabriella Alletto ricorderà tutto. Inchiodando Scattone e Ferraro al loro destino.

Ci sarebbe un elenco lunghissimo di assurdità da raccontare (e infatti ci ho scritto un libro): dai tabulati sbagliati che confondono i ricordi dell’altra testimone Maria Chiara Lipari, alle pressioni fatte agli testimoni su presunte loro assunzioni irregolari dentro l’università, al ritrovamento mesi dopo, nei bagli del Rettorato,  di una pistola compatibile con quella che ha sparato  ecc…ecc…

Il luogo dell’omicidio

Eppure questo processo, che in condizioni normali non si sarebbe dovuto proprio svolgere e che si sarebbe dovuto fermare dopo la scoperta della videocassetta dell’interrogatorio a Gabriella Alletto, ha comunque prodotto una sentenza. Una sentenza spiazzante, che molti hanno valutato amaramente come il male minore per salvare procura, testimoni e opinione pubblica.

Una sentenza che ha quindi salvato tutti, meno Scattone e Ferraro, condannati a una pena irrisoria dalla Giustizia, ma che ancora scontano, 24 anni dopo i fatti, l’ergastolo del pubblico ludibrio.
Provate se avete ancora dubbi sullo scempio che è stato fatto, ad andare nei luoghi della tragedia.
Mettetevi nella posizione dove Marta è stata colpita. Guardate la finestra del bagno di Statistica, e poi provate a volgere lo sguardo alla finestra dell’Aula 6. Se la riuscite a vedere da quel punto.
Poi, andate dentro il bagno di Statistica e guardate da lì come ho fatto io e come ha fatto subito dopo lo sparo il PM. E se non bastasse, salite al primo piano, a Filosofia del Diritto. Entrate nell’Aula 6, affacciatevi da quella finestra che ora ha un piccolo condizionatore ma che all’epoca ne aveva uno grande un metro per un metro appoggiato sul davanzale. Cercate da lì di vedere se ci riuscite il punto dove Marta stava passando. E provate a immaginare se è possibile che tutto ciò che è stato sentenziato sia vero.

Provateci. Non servirà altro per convincervi.

Mauro Valentini

NO TIME TO DIE – L’ultima di Daniel

James Bond si è innamorato

Alla quinta e ultima performance nel ruolo dell’agente più famoso al mondo, Daniel Graig regala una prova d’attore sontuosa e piena di quelle sfumature passionali e appassionate che avevamo per la verità già intravisto sia in Spectre (il più bello della sequenza “Graighiana” di Bond) che in Skyfall.

Daniel Graig

Bond… James Bond… non è più 007, lo ha sostituito l’agente Nomi, una ragazza dai modi spicci e molto in carriera. Lui, il nostro James, si è ritirato a vita privata dopo una rocambolesca azione in quel di Matera, una operazione che gli ha portato via l’amore e la voglia di lavorare. Perché è proprio cosi: Bond ha il mal d’amore.
Ma si sa, non può rimanere inattivo per molto, e una azione terroristica violentissima dentro un laboratorio londinese, che comporterà il furto di una potente bio-arma letale a carico del DNA (e pensare che il film è stato scritto prima del Covid…) e il ricongiungimento di un vecchio amico dell’FBI, Felix Leither, che scova Bond nel suo Buen Retiro in Giamaica, costringeranno l’ex 007 a tornare agli ordini di Sua Maestà per un’ultima volta.

Un film molto ricco di dialoghi oltre che della solita azione spettacolare, che varrebbe il biglietto soltanto per i primi 30 minuti a Matera

Una Matera colorata con generosa dolcezza dal direttore della fotografia e premio Oscar Linus Sandgren (quello di La La Land per capirci non uno qualsiasi) e che restituisce una umanissima figura di un uomo, Bond, stanco di vivere quella vita rocambolesca e con una voglia di famiglia quasi melodrammatica.

Daniel Graig e Lea Seydoux a Matera

Una prova d’attore si è detto quella di Graig sopra le righe, quasi esagerata per quello che comunque voleva esser nelle intenzioni un action-movie a tutti gli effetti. Ma che in fondo non riesce completamente nel suo intento (ed è un pregio sia chiaro) proprio per quella “voglia di tenerezza” che ha non solo Bond ma anche chi gli sta attorno, a partire dalla giovane e bellissima Madeleine, interpretata da Lea Seydoux qui con figlia di cinque anni al seguito, e via via tutti gli altri, dai soliti “M” e “Q” fino alla nuova 007 (la bravissima Lashana Lynch) tutti pervasi dal fuoco sacro dell’amore o di quello che gli somiglia.

Si è atteso tanto, colpa della pandemia, per avere questo No time to die al cinema.
E il cambiamento che arriverà dopo questo episodio sarà epocale, non solo per il commiato di Daniel Graig, ma anche e soprattutto perché nessuno potrà più esser questo 007. E questa notizia lascerà tutti gli appassionati della saga con un senso di malinconica consapevolezza che colui che hanno sempre pensato speciale e insuperabile, in fondo è solo un uomo innamorato che guida una Aston Martin su strade senza ritorno.

Mauro Valentini

Ambra e il Tapiro usato come clava

Vi siete divertiti con le corna della Angiolini?

Che Striscia la Notizia non sia campione di eleganza questo lo sappiamo tutti, del resto a volte proprio questa sua capacità di non esser corretto ha fatto la sua fortuna.

I Tapiri poi, sono entrati nell’immaginario collettivo e sono icona di costume quando si deve sbeffeggiare un politico o un VIP chiamiamoli cosi che hanno compiuto qualche gaffe o si sono macchiati di uno scivolone maldestro, noto alla stampa e ai social.

Secondo la Treccani infatti : attapirare v. tr. [der. di tapiro, con riferimento al «tapiro d’oro», premio ironicamente consegnato dalla trasmissione televisiva «Striscia la notizia», a partire dal 1996, a personaggi noti che si sono distinti per comportamenti considerati riprovevoli o perdenti], scherz. – Consegnare a qualcuno il premio satirico «tapiro d’oro»; per estens., infierire con ostinazione contro chi ha subito uno smacco o ha commesso un errore.

Quindi Ambra Angiolini, che lo ha ricevuto dalle sapienti e dotte mani di Valerio Staffelli (uno che prima e dopo il Tapiro non si sa cosa abbia fatto ne cosa farà) ha subito uno smacco, o meglio ancora ha commesso un errore: Quello di esser stata tradita dal suo compagno famoso.

Il tutto tra scrosci di risate finte e con il plauso dei due conduttori in studio, uno su cui possiamo anche stendere un velo pietoso di compassione, ma l’altra, su cui una riflessione andrebbe fatta.

Vanessa è stata vittima dei social per il suo aspetto e si è spesa come difensore dei diritti delle donne. Ora trovarla ad avallare senza una parola di solidarietà a un servizio obiettivamente imbarazzante lascia inorriditi.
Aggiungiamo tra l’altro che il signor Staffelli fa nello stesso servizio battute allusive su un rapporto omosessuale tra Allegri e Dybala, con tanto di foto mezzo nudo del calciatore. Insomma, un servizio da galleria degli orrori di cui, non mi risulta, ancora nessuno si sia dissociato né tantomeno scusato con Ambra.

Che dal canto suo l’ha presa a ridere anche se obiettivamente sorpresa e disorientata da quanto le stavano dicendo. Meno male che Staffelli le ha ricordato che lei comunque è una bella donna… che se fosse stata brutta secondo i suoi canoni chissà che altro avrebbe detto.

Intanto Canale 5, nel 2021, manda nella trasmissione più vista in quella fascia oraria un servizio come questo. Perché del resto, cara Ambra, se ti ha lasciata, o meglio ti ha tradita, avrai commesso un errore. O subito uno smacco, fai tu.  Altrimenti il Tapiro non lo avresti meritato.

Ah dimenticavo: Ambra non è una soubrette come la definiscono gli ignavi conduttori, che poi addirittura cantano e scimmiottano una canzone che Ambra cantava quando aveva 16 anni.
Forse agli autori è sfuggito il fatto che Ambra Angiolini, di anni 44, ha all’attivo tra le altre cose ben 23 film, che ha lavorato con registi del calibro di Ferzan Ozpetek, Cristina Comencini e Michele Placido e ha vinto tra le altre cose un David di Donatello, due Nastri d’argento, due Ciak d’oro e il premio Venere come attrice teatrale rivelazione.
Altro che Tapiro ….

Mauro Valentini

 

Il Supremo – Ovvero: l’origine del male

In libreria il True Crime di Giuseppe Lumia e Andrea Galli che racconta l’ascesa criminale di uno dei boss più temuti della storia del crimine in Italia

Ci sono tante guerre che si combattono nel nostro paese. Guerre contro le mafie. Guerre contro quelle menti criminali che si mangiano tanta ricchezza che produce il territorio e tante energie di uomini e donne di buona volontà che lavorano e che sono vessati e aggrediti nei commerci e finanche nella vita di tutti i giorni da queste piovre che tutto distruggono e nulla creano.

Ci sono uomini e donne dalla parte dello Stato che combattono queste guerre tutti i giorni. Combattono per neutralizzare questi criminali.

Questo libro è una storia di guerra, una lunga guerra contro la ‘ndrangheta e le sue ramificazioni.

Pasquale Condello

Il Supremo (Edizioni Piemme) è un racconto a quattro mani scritto da Giuseppe Lumia e Andrea Galli, che narra l’ascesa criminale di Pasquale Condello, alias il supremo appunto, ma che attraverso questa scia di sangue e (finto) onore offre uno spaccato quasi didattico e prezioso (seppur tutto scritto con un’ottima penna narrativa) di quella che è stata e che speriamo non sarà mai più la criminalità organizzata italiana.

Una ascesa, quella di Condello, partita con il contrabbando di sigarette negli anni Settanta in Calabria, per poi procedere senza ostacoli verso il narcotraffico internazionale, contaminando imprenditoria, società civile e politica.

E dunque l’irresistibile ascesa di Condello scorre pagina dopo pagina a coprire trent’anni di Repubblica italiana, con una sequenza di delitti e di ingiustizie che lascerà il lettore sconvolto e indignato.

Ma sbaglia chi pensa che Il Supremo sia un saggio senz’anima ricco soltanto di una lista di fatti collegati tra loro

Andrea Galli e Giuseppe Lumia tratteggiano con una scrittura avvincente, colorata e colorita, un perfetto quadro storico del fenomeno, non si fermano in superficie e del resto, Lumia ha esperienza sul campo essendo un ufficiale dei Carabinieri da sempre impegnato contro le mafie e Galli, giornalista di fama ormai mondiale, tanto ha scritto e tanto conosce degli orrori e degli orrendi attori di questa guerra.

Una guerra che lascia una scia di dolore mai rassegnato. Una guerra che, questo è il messaggio che si coglie leggendo le pagine di questo True Crime, si può e si deve vincere.

Mauro Valentini

Giuseppe Lumia – è ufficiale dei Carabinieri. Ha vissuto a Palermo, Milano e Roma, partecipando a indagini antimafia tra le più importanti degli ultimi vent’anni e alle catture di noti latitanti di Cosa nostra e ‘ndrangheta.

Andrea Galli – è cronista del «Corriere della Sera». Nel gennaio 2021 ha avviato un’inchiesta sui cold case nella Milano degli anni Settanta. Tra i suoi libri: Cacciatori di mafiosi (Rizzoli, 2012), Il patriarca (Rizzoli, 2014), Carabinieri per la libertà (Mondadori, 2016), Dalla Chiesa (Mondadori, 2017), Sicario (Rizzoli, 2020, in corso di traduzione all’estero). È stato consulente per la serie televisiva Kings of Crime di Roberto Saviano.

Non c’è pace per Yara

Una vicenda chiusa e il paradosso  del dubbio

Anche stavolta un buco nell’acqua. L’ennesimo di questa tragica storia chiusa da anni per tutti meno che per i legali dell’assassino di Yara Gambirasio.

I giudici della Corte d’Assise di Bergamo hanno rigettato la richiesta dei difensori di Massimo Bossetti di aver accesso ai reperti del processo conclusosi con la condanna all’ergastolo del muratore di Mapello per l’omicidio della povera ragazzina. La difesa aveva avanzato l’istanza in vista di una possibile revisione della sentenza.

Una revisione che ha contorni quasi grotteschi se non ci fosse di mezzo la morte di una giovane vita, una morte così orribile da riuscir difficile anche scriverne.
Un processo che aveva basi di prova contro Bossetti così schiaccianti da renderlo quasi una formalità.

Yara

Un lavoro quello della Procura, durissimo e obiettivamente iniziato in maniera sfortunata, proprio per la singolare storia di quel DNA di difficile comparazione, non tanto per il degrado dello stesso, quanto per la originale posizione dei genitori naturali dell’imputato, anzi, del colpevole. Che era figlio di Guerinoni e non del suo papà ufficiale. Una casualità incredibile che tanto è costata in termini di tempo e di impegno.
Ma che poi, trovato l’uomo del DNA, riconosciuto con le telecamere di sicurezza il suo furgone nei pressi della palestra, ultimo luogo frequentato da viva da Yara e raccolte le altre prove, ha portato a una condanna all’ergastolo inevitabile.

Eppure… Abbiamo assistito a un altro girotondo degli avvocati di Bossetti che avrebbero potuto e dovuto invece convincere il loro assistito alla collaborazione e alla confessione.

Avrebbero potuto e dovuto limitare così anche i danni da un punto di vista processuale, e restituire finanche dignità a quest’uomo che quella sera chissà cosa gli è saltato nel cervello di fare di quella povera ragazzina. Di quella giovane vita abbandonata alla morte.

E invece … hanno rincorso l’assurdo tutto a favore di telecamera. Solo in tv infatti certe teorie complottiste hanno potuto trovare albergo e accoglienza. E questo ha anche inquinato il popolo dei social, chiamiamolo così, pronto a urlare al complotto appunto, ma pigro e poco incline a legger con pazienza non dico le sentenze, ma almeno gli articoli e le dichiarazioni di chi, tra i colleghi giornalisti, ha fatto un ottimo lavoro di informazione. Non di investigazione, perché quella non serviva. era tutto chiaro. Chiarissimo purtroppo.

Ho la sensazione che Bossetti, tradito quella notte dai suoi sensi e dalla ragione, sia stato poi illuso e in un certo senso tradito in tutti questi anni da chi avrebbe dovuto, per ruolo e posizione, indurlo ad una presa di coscienza di quanto sia evidentemente accaduto. E non alimentare inutilmente speranze buone solo per una comparsata TV e senza nessun costrutto giuridico e giudiziario. E fermare soprattutto tutto questo paradosso del dubbio, che non fa che continuare ad offendere la memoria di Yara.

Che meriterebbe dopo anni di indagini e tre processi, dopo tanto rumore per nulla, almeno il silenzio della ragione attorno al suo nome e alla sua famiglia, violata per sempre da una notte di follia di Massimo Bossetti, detto il Favola.

Mauro Valentini