Mauro Valentini

Scrittore & Giornalista

Antonella Di Veroli – 25 anni fa Il caso della donna nell’armadio

Nel mio libro, tutto gli errori nelle indagini.  Un solo sospettato, un caso semplice eppure rimasto insoluto

Antonella Di Veroli vive sola, praticamente da sempre. Ha 47 anni e da poco ha acquistato un appartamento a Talenti, un quartiere tra i più “in” di Roma dove liberi professionisti e la nuova borghesia romana si sono insediata da anni qui, in questa collina a due passi da Villa Torlonia. Antonell

Via Domenico Oliva 8 quel giorno

a è una donna sola. Non ha tanti amici, non ha un marito e a 47 anni non ha neanche un fidanzato. Ne ha avuti due negli ultimi anni, ma avevano un difetto. Erano sposati e non avevano intenzione di lasciare la moglie.

Quella seconda domenica di aprile del 1994, Antonella la trascorre fuori Roma in casa di amici. Le hanno anche proposto di rimanere a cena tanto che fretta c’era di tornare a casa ma lei aveva declinato l’invito: «ho un impegno» si era lasciata sfuggire e chi la ospitava sapeva che di più non avrebbe detto. Donna riservata, fin troppo.

Antonella quella sera torna a Roma alle 20:30, mette la macchina in garage, percorre quei 40 passi che la separano dal portone di casa immergendosi in un gorgo che rimarrà un mistero.

Sappiamo solo che si strucca, si mette in pigiama, sistema sul tavolo del salone dei documenti di lavoro perché Antonella è una commercialista e l’indomani deve sbrigare alcune pratiche. Alle 22:45 fa una telefonata ad una amica e una alla mamma. E poi?

Il giorno dopo, nessuno la sente e la vede. Al lavoro non si presenta. La chiamano a casa ma c’è soltanto la segreteria telefonica. Qualcosa non torna: «deve esserle accaduto qualcosa» dice subito la mamma, che allerta le due sorelle di Antonella che corrono in quell’appartamento nel primo pomeriggio, si fanno aprire da Ninive, la vicina di casa che ha le chiavi e che aiuta Antonella nelle faccende di casa, una donna che le colora con la sua compagnia un poco la vita. Ma la casa è vuota, la luce è accesa e i vestiti ordinatamente riposti sulla sedia accanto al letto. Antonella, non c’è. Arriva anche Umberto, l’ex amante e collega di lavoro da una vita. Umberto è un uomo anziano: «ormai siamo soltanto amici» dice agli amici e con Antonella ha un rapporto che dice esser solo di lavoro. Erano stati amanti fino a che Antonella aveva conosciuto Vittorio, un fotografo bello, simpatico, sposato. Si sposato anche lui. ma stavolta a lei era sembrata una storia diversa. Ci aveva creduto. Gli aveva anche prestato dei soldi, si era fidata. «Che scema!» si era poi detta: «che scema a fidarmi di uno così.» Uno che appena la moglie lo aveva scoperto era scappato. Con i soldi.

Antonella

Ma Antonella dov’è? Che fine ha fatto. Passano due giorni insonni e pieni di paure. La mamma chiama “Chi l’ha visto?” e dalla redazione le dicono: «magari è partita per un viaggio. Controllate se in casa c’è tutto. I vestiti, le valigie…» E allora ritornano in quella casa, la sorella di Antonella, Carla, con suo marito, un’amica e poi Umberto, sempre presente, che ormai ha preso a cuore quella scomparsa. Anche troppo dicono i familiari di Antonella infastiditi.

Cercano nell’armadio, ma l’anta centrale non si apre, è chiusa, ma non con la chiave, è incollata. La forzano e lì dentro giace da tre giorni il corpo di Antonella, con un sacchetto in testa e due colpi di pistola nella fronte. Uccisa e chiusa nell’armadio.

Chi le ha sparato, le ha sparato con una pistola calibro 22 attraverso un cuscino e poi, credendo d’averla uccisa le ha messo la testa in un sacchetto di quelli che si usano per fare la spesa. E inconsapevolmente l’ha soffocata.

Le indagini iniziano come sempre in questi casi partendo dalle conoscenze della vittima. Già ma quali sono le frequentazioni di una donna come Antonella, di cui in fondo nessuno conosce molto? Ai carabinieri i familiari fanno soltanto due nomi: Vittorio Biffani e l’onnipresente Umberto Nardinocchi, gli unici due uomini che Antonella aveva lasciato trapelare nelle pieghe dei suoi silenzi.

E su questi due, su Umberto e Vittorio, che si concentrano da subito le indagini.

Indagini infarcite di errori così grossolani da sembrare grotteschi, errori e dimenticanze che iniziano subito nella casa di via Domenico Oliva dove Antonella è stata uccisa, quando ci si perde gettandolo tra i rifiuti il sacchetto con cui la testa di Antonella era stata avvolta. Un sacchetto che avrebbe portato subito ad isolare le impronte dell’assassino. Ma non è finita qui perché non vengono repertate neanche le impronte della vittima in fase di primo sopralluogo e di autopsia, rendendo impossibile una valutazione attenta sui reperti trovati (bicchieri, piatti ecc.) e non permettendo di agire “per sottrazione” nella determinazione di quelle dell’omicida.

Ai due sospettati però viene fatto il test dello STUB, anche se ormai dal momento dello sparo sono passati già tre giorni. E tutti e due risulteranno positivi. Ma Umberto, che fortuna, proprio pochi giorni prima della morte di Antonella era andato a sparare in un poligono, mentre Vittorio non ha nessuna giustificazione da portare. Lui ha un alibi sostenuto dai suoi due figli ormai maggiorenni e dalla moglie, come del resto lo ha Umberto, ma non può spiegare perché quello stick di cera che gli hanno strofinato sulla mano sinistra, lui che è destrorso, contenga delle particelle di polvere da sparo.

E poi c’è quel debito. Quei 42 milioni che Vittorio aveva ricevuto da Antonella e che non aveva mai restituito, nonostante i solleciti per la verità neanche così pressanti della vittima, che dopo la scoperta della loro relazione si era persa in accese discussioni con Vittorio e con la moglie di lui più sentimentali che economiche. Eppure, basta quello per portarlo a processo e sbatterlo con una foto a nove colonne in prima pagina su tutti i giornali. Per i giornali è lui l’omicida della donna nell’armadio. Sui giornali e nelle televisioni campeggia la sua foto e soprattutto sono descritti momento per momento la sua intimità con Antonella. Che leggono tutti, sua moglie, i figli e i suoi committenti di lavoro che infatti non lo faranno più lavorare.

Vittorio biffani (gentile concessione Unita)

Ma è stato Vittorio? Il processo dirà di no, non è stato lui. Lui non c’era in quella casa quella notte. E quello STUB risultato positivo si scoprirà, soltanto anni dopo durante il processo d’appello, che non era neanche il suo. Lo avevano invertito per errore con quello di qualcun altro.

E allora se non è stato Vittorio, chi è stato?

Analizzando le carte, le testimonianze e i pochi segni che Antonella ha lasciato nella sua vita ci si chiede da subito perché non si è indagato anche su Umberto, che frequentava Antonella con assiduità, che era stato in qualche modo estromesso sentimentalmente dai pensieri della vittima e che comunque con lei continuava ad avere un rapporto morboso e sempre troppo invadente, tanto da gestirle lavoro amicizie interessi economici e finanche i rapporti con il condominio. Eppure, lui, come altre due figure misteriose e reticenti che affiorarono nel buio della vita di Antonella durante le indagini non furono mai coinvolti. Il colpevole per il PM Nicola Maiorano che condusse quell’indagine poteva esser solo Vittorio Biffani.

E poi ci sono le sorprese: per esempio, mancano due reperti fondamentali:

1 – il pianale dove Antonella è stata adagiata e dove c’era un’impronta e del sangue.

2 – L’anta con lo stucco utilizzato per sigillarla in quella maniera così macabra, anta che aveva conservato certamente molte tracce dell’assassino.

Ma questi due reperti sono stati smarriti nel deposito atti giudiziari! Spariti come era sparito quel sacchetto che ha ucciso Antonella e che avrebbe probabilmente consegnato il giorno dopo il nome dell’omicida evitando questa indagine sbagliata che ha logorato i familiari di Antonella Di Veroli e rovinato per sempre il nome di Vittorio Biffani.

Chi ha ucciso dunque Antonella?

Una donna sola, che quella notte ha aperto a qualcuno con cui era molto in confidenza, tanto da aprirgli in pigiama. Qualcuno di cui Antonella si fidava, ma il cui nome si era tenuta per sé. Dopo tante delusioni stavolta non lo aveva detto a nessuno. E questa sua riservatezza le è stata fatale.

Antonella quella notte ha aperto la porta ad un assassino che l’ha uccisa, l’ha chiusa nell’armadio senza pietà e poi è uscito senza far rumore, sparendo da quel palazzo per sempre, percorrendo quei 40 passi a ritroso e spegnendo la vita di una donna tradita soltanto dalla sua voglia di amare.

Mauro Valentini

Il mio libro che racconta questo caso è: “40 passi – l’omicidio di Antonella Di Veroli – Edizioni Sovera

 

 

La svolta nel delitto di Arce e quel libro di Pino Nazio…

«Non conta chi ha sferrato il colpo decisivo, mia figlia è rimasta lì a terra 4-5 ore. poteva essere salvata e si scelse invece di lasciarla morire . Come per Stefano Cucchi…

si è cercato di nascondere la verità perché altri in caserma hanno sentito quello che accadeva, ma qui l’Arma si è riscattata con le nuove indagini e la determinazione di arrivare in fondo. Io e Serena ci attendiamo ora un segnale di giustizia: che queste persone vengano arrestate come altri innocenti prima di loro e passino il processo in carcere».

Guglielmo Mollicone stavolta vede la fine del tunnel. Al collega Fulvio Fiano de “Il Corriere della Sera” del 19 febbraio, ha raccontato tutta la sua rabbia ma anche e soprattutto la sua speranza. Speranza che si apra finalmente uno squarcio di verità sulla sorte della figlia Serena, morta a Arce il primo di giugno del 2001 in circostanze che ormai sono chiare, almeno secondo i RIS che hanno consegnato una relazione alla Procura di Cassino che sembra già una sentenza.

Serena Molicone

Per quello che trapela da quella relazione infatti, appare chiaro che Serena è stata colpita a morte nella caserma dei Carabinieri di Arce. E tutto lascia presupporre che per il comandante della Stazione di allora Franco Mottola e per la sua famiglia inizierà un periodo difficile. Molto difficile.

Le tante tracce esaminate per giorni con microscopi di ultima generazione, le comparazioni scientifiche per rintracciare una «coerenza dei materiali» (così è detto nella relazione) rendono infatti un quadro schiacciante che porta dritti a una soluzione che è quella paventata e urlata per diciotto anni da Guglielmo: Serena per lui è morta in caserma, anzi, nella casa del comandante della Stazione e poi è stata portata legata e chiusa in una busta di plastica al bosco di Fonte Cupa (oggi Fonte Serena).

Chi si è occupato del caso Mollicone e ne ha scritto anche un libro è il giornalista della Rai Pino Nazio, che oggi sul suoi profilo Facebook ha voluto riportare alcuni passi del libro: Il mistero del bosco. L’incredibile storia del delitto di Arce (Sovera edizioni 2013).

Passi che in effetti chiarivano fin da subito alcuni passaggi investigativi che soltanto ora riportano i RIS.

Era tutto così chiaro eppure…

Pino Nazio

Scrive Nazio: “Finalmente siamo vicini a un nuovo processo per la morte di Serena Mollicone. Alla verità no, quella è stata urlata da anni dal papà Guglielmo e l’ho descritta nel mio libro del 2013. Mi sono andato a rileggere alcuni passaggi del libro e c’è dentro tutto quello che si sta verificando in questi giorni….”

Ed ecco alcuni passaggi fondamentali del suo libro:

[…]
Quando la parte più lunga della notte era già trascorsa, Guglielmo rientrò a casa in preda allo sconforto e trovò una strana sorpresa: ad aspettarlo davanti casa non c’era la figlia, come durante

quelle interminabili ore aveva pregato che avvenisse, ma il maresciallo Mottola.

Frastornato dall’insolita apparizione, non trovò irrealistica la richiesta dell’uomo di entrare in casa e perquisire la stanza di Serena, alla ricerca di elementi utili.

Tutte le denunce di scomparsa non vengono approfondite dalle forze dell’ordine nelle prime ore; la stragrande maggioranza dei casi si risolvono nell’arco delle ventiquattro ore.

[…]

Il maresciallo Franco Mottola si dimostrò inspiegabilmente esagerato e noncurante delle regole, c’erano tante stranezze nel suo comportamento, ma cosa non era sembrato strano a Guglielmo in quella notte?
[…]

Il maresciallo Franco Mottola condusse l’interrogatorio, incurante del dolore dell’uomo e delle due nottate in bianco, appena trascorse.

Le domande erano sempre le stesse, ripetitive, ossessive, a cui Guglielmo rispondeva sempre nello stesso modo. A nulla valevano le suppliche di farlo tornare a casa, perché da un momento all’altro sarebbe rientrata Consuelo e non avrebbe trovato nessuno.

Solo alle quattro del mattino si riaprì il portone della caserma e Guglielmo poté tornare a casa.

Appena tornato a casa, Guglielmo andò ad aprire un cassetto, già aperto ore prima da Mario, senza che quest’ultimo vi avesse trovato nulla di interessante, fece una incredibile scoperta: qualcuno aveva messo lì dentro il telefono della ragazza.

Era tardi, il giorno dopo lo aspettava la durissima giornata dei funerali, lasciò sul tavolo il cellulare che aveva trovato e crollò sul letto quasi svenuto.

[…]
Le tracce di Serena si erano perse alle 9.35 di fronte alla fermata della corriera di Isola Liri, un successivo avvistamento la vole
va in compagnia di alcuni ragazzi al bar della Valle intorno alle 10. Era stata la dipendente del bar, Simonetta, a ricordare che Serena era scesa da una Lancia Y, lo stesso modello di automobile che aveva Marco Mottola, figlio del comandante della stazione dei carabinieri di Arce. Simonetta ricordava di averla vista entrare nel bar con il ragazzo per comprare delle Marlboro light, le stesse si
garette che fumava Serena.
[…]

Lungo la strada Serena avrà avuto un battibecco con Marco, il figlio del comandante della stazione o con qualcun altro, io non posso sapere chi c’era in quella macchina. Lei era indignata dal fatto che in paese girassero sostanze mortali, forse aveva paura che volessero darle anche al fidanzato, fare di lui un tossico”.

“Ti risulta che avvenissero cose simili?”, domanda Lucrezia. “In quel giro c’erano state altre volte delle liti, perché qualche spacciatore voleva avviare all’uso di droghe pesanti qualche ragazzo i cui parenti e amici si erano opposti, se ne è parlato anche al processo”.

“Quindi una discussione nata in macchina, una lite pesante,” cerca di riassumere Jacopo attento a non perdere il filo del discorso, “con Serena che minacciava di andare a dire tutto ai carabinieri?”.

“Sì. E l’altro, forte di qualche protezione altolocata, potrebbe averla sfidata, arrivando a proporle di portarcela lui stesso alla caserma dei carabinieri”.

“Proprio come aveva detto Santino Tuzzi, che quella mattina la aveva vista arrivare in caserma, dalla quale però non la vide più uscire ‘aggiunge Lucrezia’.

Mia figlia è stata inghiottita da quelle mura dove era andata per chiedere protezione, cercava giustizia, ha trovato una banda di assassini”.
[…]

Io credo di capire cosa sostenga Guglielmo, il papà di Serena, la molla che lo spinge ad andare avanti è la ricerca degli assassini, guardarli in faccia, vederli condannati. Quella è diventata la sua ragione di vita”.

Mauro Valentini

Edizioni Sovera

(brani tratti da: Il mistero del bosco. L’incredibile storia del delitto di Arce (Sovera edizioni 2013)

Fonte: Corriere della Sera ( https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/19_febbraio_20/serena-mollicone-l-ultima-perizia-incastra-famiglia-comandante-delitto-arce-88611766-3488-11e9-a0cc-9d1fdf09d884.shtml )