Mauro Valentini

Scrittore & Giornalista

NO TIME TO DIE – L’ultima di Daniel

James Bond si è innamorato

Alla quinta e ultima performance nel ruolo dell’agente più famoso al mondo, Daniel Graig regala una prova d’attore sontuosa e piena di quelle sfumature passionali e appassionate che avevamo per la verità già intravisto sia in Spectre (il più bello della sequenza “Graighiana” di Bond) che in Skyfall.

Daniel Graig

Bond… James Bond… non è più 007, lo ha sostituito l’agente Nomi, una ragazza dai modi spicci e molto in carriera. Lui, il nostro James, si è ritirato a vita privata dopo una rocambolesca azione in quel di Matera, una operazione che gli ha portato via l’amore e la voglia di lavorare. Perché è proprio cosi: Bond ha il mal d’amore.
Ma si sa, non può rimanere inattivo per molto, e una azione terroristica violentissima dentro un laboratorio londinese, che comporterà il furto di una potente bio-arma letale a carico del DNA (e pensare che il film è stato scritto prima del Covid…) e il ricongiungimento di un vecchio amico dell’FBI, Felix Leither, che scova Bond nel suo Buen Retiro in Giamaica, costringeranno l’ex 007 a tornare agli ordini di Sua Maestà per un’ultima volta.

Un film molto ricco di dialoghi oltre che della solita azione spettacolare, che varrebbe il biglietto soltanto per i primi 30 minuti a Matera

Una Matera colorata con generosa dolcezza dal direttore della fotografia e premio Oscar Linus Sandgren (quello di La La Land per capirci non uno qualsiasi) e che restituisce una umanissima figura di un uomo, Bond, stanco di vivere quella vita rocambolesca e con una voglia di famiglia quasi melodrammatica.

Daniel Graig e Lea Seydoux a Matera

Una prova d’attore si è detto quella di Graig sopra le righe, quasi esagerata per quello che comunque voleva esser nelle intenzioni un action-movie a tutti gli effetti. Ma che in fondo non riesce completamente nel suo intento (ed è un pregio sia chiaro) proprio per quella “voglia di tenerezza” che ha non solo Bond ma anche chi gli sta attorno, a partire dalla giovane e bellissima Madeleine, interpretata da Lea Seydoux qui con figlia di cinque anni al seguito, e via via tutti gli altri, dai soliti “M” e “Q” fino alla nuova 007 (la bravissima Lashana Lynch) tutti pervasi dal fuoco sacro dell’amore o di quello che gli somiglia.

Si è atteso tanto, colpa della pandemia, per avere questo No time to die al cinema.
E il cambiamento che arriverà dopo questo episodio sarà epocale, non solo per il commiato di Daniel Graig, ma anche e soprattutto perché nessuno potrà più esser questo 007. E questa notizia lascerà tutti gli appassionati della saga con un senso di malinconica consapevolezza che colui che hanno sempre pensato speciale e insuperabile, in fondo è solo un uomo innamorato che guida una Aston Martin su strade senza ritorno.

Mauro Valentini

Il Supremo – Ovvero: l’origine del male

In libreria il True Crime di Giuseppe Lumia e Andrea Galli che racconta l’ascesa criminale di uno dei boss più temuti della storia del crimine in Italia

Ci sono tante guerre che si combattono nel nostro paese. Guerre contro le mafie. Guerre contro quelle menti criminali che si mangiano tanta ricchezza che produce il territorio e tante energie di uomini e donne di buona volontà che lavorano e che sono vessati e aggrediti nei commerci e finanche nella vita di tutti i giorni da queste piovre che tutto distruggono e nulla creano.

Ci sono uomini e donne dalla parte dello Stato che combattono queste guerre tutti i giorni. Combattono per neutralizzare questi criminali.

Questo libro è una storia di guerra, una lunga guerra contro la ‘ndrangheta e le sue ramificazioni.

Pasquale Condello

Il Supremo (Edizioni Piemme) è un racconto a quattro mani scritto da Giuseppe Lumia e Andrea Galli, che narra l’ascesa criminale di Pasquale Condello, alias il supremo appunto, ma che attraverso questa scia di sangue e (finto) onore offre uno spaccato quasi didattico e prezioso (seppur tutto scritto con un’ottima penna narrativa) di quella che è stata e che speriamo non sarà mai più la criminalità organizzata italiana.

Una ascesa, quella di Condello, partita con il contrabbando di sigarette negli anni Settanta in Calabria, per poi procedere senza ostacoli verso il narcotraffico internazionale, contaminando imprenditoria, società civile e politica.

E dunque l’irresistibile ascesa di Condello scorre pagina dopo pagina a coprire trent’anni di Repubblica italiana, con una sequenza di delitti e di ingiustizie che lascerà il lettore sconvolto e indignato.

Ma sbaglia chi pensa che Il Supremo sia un saggio senz’anima ricco soltanto di una lista di fatti collegati tra loro

Andrea Galli e Giuseppe Lumia tratteggiano con una scrittura avvincente, colorata e colorita, un perfetto quadro storico del fenomeno, non si fermano in superficie e del resto, Lumia ha esperienza sul campo essendo un ufficiale dei Carabinieri da sempre impegnato contro le mafie e Galli, giornalista di fama ormai mondiale, tanto ha scritto e tanto conosce degli orrori e degli orrendi attori di questa guerra.

Una guerra che lascia una scia di dolore mai rassegnato. Una guerra che, questo è il messaggio che si coglie leggendo le pagine di questo True Crime, si può e si deve vincere.

Mauro Valentini

Giuseppe Lumia – è ufficiale dei Carabinieri. Ha vissuto a Palermo, Milano e Roma, partecipando a indagini antimafia tra le più importanti degli ultimi vent’anni e alle catture di noti latitanti di Cosa nostra e ‘ndrangheta.

Andrea Galli – è cronista del «Corriere della Sera». Nel gennaio 2021 ha avviato un’inchiesta sui cold case nella Milano degli anni Settanta. Tra i suoi libri: Cacciatori di mafiosi (Rizzoli, 2012), Il patriarca (Rizzoli, 2014), Carabinieri per la libertà (Mondadori, 2016), Dalla Chiesa (Mondadori, 2017), Sicario (Rizzoli, 2020, in corso di traduzione all’estero). È stato consulente per la serie televisiva Kings of Crime di Roberto Saviano.

Montmartre – La vita disegnata di Lucille

Due artisti che si incontrano.

Due stili, due modi di raccontare storie, uno con matita e pastelli, l’altra con la penna. Tutti e due con il cuore.

Questa è in estrema sintesi la causa e l’effetto di “Montmartre” (Lavieri edizioni) Graphic Novel che sancisce come si è detto la stretta collaborazione artistica tra Gianfranco Vitti e Gaia Favaro, entrambi di Taranto.

Entrambi talentuosi narratori di storie, in questo libro alle prese con un racconto che avvolge per delicatezza e profondità, scritta e visiva.

Lucille si trasferisce a Montmartre dalla provincia francese e si ritrova presto immersa nella poetica complessità del quartiere parigino. Montmartre la accoglie e quasi la sovrasta con i suoi colori, le vie affollate e i tanti incontri buffi e sorprendenti come quello con la scorbutica padrona di casa con la maglia dei Pink Floyd, o con Gogol il clochard e soprattutto con Pierre, artista di strada.

Ma il passare dei giorni rivela un inaspettato filo conduttore della sua vita parigina: una particolare solitudine che, privata della comune connotazione negativa, sa essere spazio dove vivere il calore di impreviste amorevoli amicizie, dove scoprire e comprendere vite diverse dalla sua.

Una sorta di Amelie in disegni e parole verrebbe da dire

Dove Lucille troverà il suo spazio e la sua dimensione sciogliendo quei nodi dell’anima che le impedivano l’inizio di un nuovo viaggio. E di un nuovo amore?

Una storia profonda e delicata, si percepisce, soffusa dal tocco magico della matita di Vitti, la poetica di Gaia Favaro, una poetica, e una matita che conquisteranno il lettore e che rendono questo prezioso libro trasversalmente amato dai cultori del fumetto e della prosa.

Un’opera che mi ha rapito, riportandomi tra quelle vie di quel quartiere dove ho lasciato il cuore e dove grazie a Vitti e Favaro l’ho ritrovato.

Mauro Valentini

La cena degli dei – Marino Bartoletti ci invita nell’Olimpo

Una favola dolce e colta, una lettura che commuove narrando di eroi senza tempo, tutti attorno a un tavolo in Paradiso

Chi se non Marino Bartoletti, testimone appassionato di mezzo secolo di sport e cultura in Italia, avrebbe potuto organizzare una cena così?
Chi se non lui, avrebbe potuto ideare un incontro piacevole e goliardico tra miti e campioni che prima di tutto facesse ordine nelle leggende di questie autentiche leggendedel secolo passato, scelte con il criterio del cuore, non solo per meriti quindi ma anche e soprattutto per amore.

Questa è “La cena degli Dei” (Gallucci editore) un libro scritto da Bartoletti che per l’occasione, lasciando la narrazione in prima persona, con la riconosciuta umiltà di chi tutto conosce (e nulla ostenta) di questo mondo fatto di arti e sport, consegna idealmente al “Grande Vecchio” Enzo Ferrari l’onere e l’onore di una rimpatriata di anime forti e belle, per una cena in Paradiso che metterà seduti a banchetto e  in conversazione, alcuni personaggi che ognuno di noi avrebbe voluto avere anche solo una volta come commensali.

«Sembrava che gli ospiti, anche quelli che si erano incontrati da pochi minuti, si conoscessero da sempre. Sic accanto a Marco e ad Ayrton pareva un bimbo affamato di favole. […] E Tazio che chiedeva a Lucio se veramente avesse cantato un intero disco chiamato Automobili; e Luciano che ripercorreva con Lady D le serate passate insieme nel nome della solidarietà; e il commendatore che faceva il galante con la divina Maria, chiedendole della sua Norma e della sua Violetta…»

Pavarotti, Lucio Dalla, Lady D, Simoncelli, Pantani, Nuvolari, Francesco Baracca, Maria Callas e Ayrton Senna… ve li immaginate a cena tutti insieme? Beh, Marino Bartoletti non solo li ha immaginati, ma ce li ha pure raccontati con grande dolcezza e simpatia, presentandoci con questo escamotage geniale e narrativo, anche aspetti poco noti e taciuti, debolezze e passioni di queste donne e questi uomini che hanno scritto la storia del secolo con i loro pensieri, le loro parole e soprattutto con le loro gesta.

Un romanzo che si legge come una favola, con lo stesso animo puro e incantato dall’incanto che ognuno di noi cela dentro nel ricordo di questi eroi, di questi Dei appunto. Un libro dolce e tanto ricco di cultura e di aneddotica, che davvero riempie il cuore.

Un libro, quello di Marino, che andrebbe letto ad alta voce in famiglia davanti al camino o in cucina dopo cena, pieno di parole che legano magicamente generazioni e passioni. Un libro in una parola: imperdibile.

Mauro Valentini

Quell’11 Settembre visto con gli occhi di un bambino

Molto forte, incredibilmente vicino – Ovvero quando è il cinema a ricordarci che la storia siamo noi

Che solo dopo 11 anni il cinema americano si sia avvicinato alla tragedia dell’11 Settembre dal punto di vista emozionale più che della cronaca non era stata una sorpresa.

Ogni evento luttuoso dell’ultimo secolo, ha toccato il Cinema prima nella narrazione lucida e poi nell’analisi che tali accadimenti producono nell’anima delle persone coinvolte.

Tom Hanks e Thomas Horn

Come per la guerra in Vietman, dove si e’ assistito a questa elaborazione del dolore, si pensi al Taxi Driver di Scorsese e al Cacciatore di Cimino, personaggi resi deboli e piegati dall’esperienza della guerra, cosi è accaduto anche per quello che in America viene definito “ il giorno più brutto della Storia“.

A fare da “apripista” al progressivo genere post 11 Settembre è stato questo film dal titolo già difficile ancorché splendido: ” Molto forte, incredibilmente vicino“,che nell’anniversario del crollo delle Torri Gemelle ho voluto rivedere e rivivere. Il regista Britannico Stephen Daldry, già introspettivamente narratore in “The readersui drammi del nazismo, ha portato in scena l’evento delle Torri dentro gli occhi di un bambino, che li dentro quei mostri di acciaio vede cadere e polverizzare i suoi 11 anni insieme al suo Papà .

La vita di Oskar verrà travolta dal crollo delle Torri Gemelle, dove il padre perde la vita non prima di aver chiamato al telefono a casa e lasciato voce e dramma nella segreteria telefonica. Oltre quel nastro che il bambino continua ad ascoltare all’infinito, Oskar troverà una busta con un nome e una chiave, “Black”. La ricerca della serratura e del Signore o la Signora Black per tutta New York diventeranno per lui salvifico mezzo di assuefazione al dolore e di compensare il vuoto affettivo di quel padre così brillante e con il sorriso di Tom Hanks.

La storia che è tratta da un romanzo di Jonathan Safran Foer, nel racconto originale si concentra sul parallelismo di Oskar e del nonno muto, ammutolito dalle bombe su Dresda nel 1945, in un ideale doloroso passaggio di testimone, ma che nel film invece si sfiora appena, essendo tutto racchiuso nel gioco di specchi dei pensieri del ragazzo, che alla ricerca di “Black” scopre una città attonita ed ancora sotto shock, come Lui, e come Lui desiderosa di amore.

Gli attori sono una garanzia, oltre al grande Hanks, il bambino, Thomas Horn (doppiato purtroppo in maniera alquanto approssimativa nell’edizione italiana) ha occhi e gesti da grande interprete, e quando si hanno appunto Tom Hanks e Sandra Bullock a disposizione, il disegno della “ordinary family” americana e’ garantito.

Sandra Bullock, si carica di un ruolo difficilissimo, quello di una mamma silenziosa e rifiutata, colpevole agli occhi del ragazzo di esser la sopravvissuta. Lei è il centro nascosto del film, che emoziona e coinvolge, molto di più potremmo azzardare dell’ex naufrago Hanks, che sceglie sempre eroi positivi e senza macchia, come e’ questo Mister Schell, che anche nel momento del crollo della Torre Nord riesce ad aver parole d’amore.

Il migliore però è Max Von Sydon, fuoriclasse assoluto, un nonno ritrovato e muto ( nel vero senso della parola per giocare agli ossimori tanto cari al piccolo protagonista) anch’egli figlio come detto di un dramma di guerra, che riaccende la vita e la speranza di tutti, non solo della famiglia Schell, soltanto con il suo sguardo da mimo ed il suo blocchetto dove trascrive pensieri bellissimi..

La fotografia e’ straordinaria, colta e mai appoggiata all’effetto speciale; le torri sono li sullo sfondo, non ci si indugia e non si cercano come appeal, e quando si vedono in lontananza, lo spettatore non le vede quasi, perché “ci vede” soltanto il povero Thomas che parlando al telefono le umanizza quasi, facendole diventare pensieri e persone e non vetro e cemento.

Un film questo “molto forte”, dove padri e madri, nonni e figli si ritrovano sopravvissuti e vivi in una ricerca di speranza contro le ingiustizie della guerra e del mondo, che Daldry guida con sapienza da autentico campione.

Se non lo avete visto, non lo perdete.

MAURO VALENTINI

Pastorale Americana

Una riflessione da genitore

Un libro che sembra perfetto, nella porosità degli eventi narrati e nel suo rituale narrativo ruvido ed efficace. Philip Roth ha il dono, quello che ogni scrittore cerca e coltiva e per alcuni, come Roth appunto, arriva per magia da chissà quale parte della natura.

Philip Roth

Il suo è la storia del sogno tradito a stelle e strisce, delle lotte interne politiche e terroristiche che molti pensano siano vissute nella stagione soltanto europea della Baader Meinhof o delle Brigate Rosse e che invece fu anche un fenomeno americano. Una rivolta anti razzista e anti Vietnam, ma non solo. Certamente questo è il cuore del libro, il crogiolo della famiglia statunitense che si inceppa, si distrugge in mille pezzi proprio a fronte del conflitto generazionale e politico tra chi è uscito dalla guerra da vincitore e i loro figli che mettono in discussione tutto il modello. E lo stile.

Ed ecco appunto il… punto da cui ripartire per rileggere quel libro. Il confronto e lo scontro genitori-figli. Uno scontro sempre acuto e politicamente quasi necessario, ove per politica si possa intendere in senso più ampio stili di vita, costumi e libertà individuali.

Ma quello che più mi ha lasciato il segno nella rilettura coltivata come occasione dopo la visione del film omonimo diretto da Ewan McGregor, è stato proprio questo: Il dramma di un padre che cerca disperatamente di salvare sua figlia dal gorgo senza fine della clandestinità. E non per mera convinzione politica, ma per amore. Per amore incondizionato. Per amore assoluto.

Una condanna a cui la mamma Dawn non si consegna ma che invece investe fino alla distruzione della sua essenza “Lo Svedese”, il padre, il ricco borghese invidiato e amato da tutti, che porterà addosso quella croce fino alle estreme conseguenze.

È giusto? È naturale? Non ho una risposta per me, figuriamoci per gli altri, ma mi resta l’amaro e il dolce di quelle pagine e di quelle scene così ben recitate dallo stesso McGregor, da Jennifer Connelly e da Dakota Fanning nel film che ritengo sia fedelissimo alle pagine di Roth, non tanto nella tensione del romanzo in sé, quanto proprio nel raccontare un padre, una madre e una figlia colti nell’avventura di vivere come in un’istantanea lunga una vita.

Mauro Valentini

 

 

Hitchcock – Truffaut – L’incontro che fece la storia

A 40 anni dalla scomparsa il Maestro del Brivido rivive in un docufilm

“Un’artista che scriveva con la Cinepresa”. La definizione perfetta per il cinema di Sir Alfred Hitchcock è quella che esce dalla voce di Francois Truffaut, in quella che rimarrà alla storia come la più bella chiacchierata sulla settima arte di tutti i tempi.

Siamo ad Hollywood, è il 1963, Hitch ha appena finito di girare “Gli uccelli”, Truffaut parte da Parigi con un registratore, una interprete e la voglia di capire l’idea di cinema di colui che la rivista “Cahiers du Cinema” ha sempre difeso dai puristi della critica, che lo reputavano (la storia dirà poi a torto) un semplice imbonitore commerciale che sforna grandi incassi e nulla più.

Ma per il regista francese non fu mai così, egli tradusse in un libro straordinario quest’intervista lunga otto giorni. Un libro che uscirà nel 1966 dal titolo appunto di “ Truffaut intervista Hitchcock”.

La Sacra Bibbia di ogni cinefilo dirà uno che di cinema se ne intende come Martin Scorsese.

Presentato alla Festa del Cinema di Roma in anteprima a ottobre 2015, l’opera è costruita come un epico racconto e realizzato da Kent Jones, direttore del NY Film Fest. Ne viene fuori un documentario ricchissimo di voci e immagini, con al centro l’audio originale di tanti brani di quella maratona di parole tra i due registi. Una maratona ricca di humour tutto inglese, da parte di un divertito e divertente Sir Alfred che gioca con quel giovane e adorato suo collega francese, svelando mille e più trucchi del suo cinema. E mostrando con pochi gesti come si realizza un capolavoro. Un film “alla Hitchcock”.

Da “Vertigo” a Psycho” è un susseguirsi narrativo che incanta e che tracima spesso in nostalgia. “I miei film sono sempre pensati per una sala da 2000 posti piena, non per la visione di uno soltanto”. Ecco forse a distanza di così tanti anni la magistrale lezione che se ne trae da questo bellissimo docu-film è proprio tutta racchiusa nelle parole di Hitchcock.

“Con questo film, non ho intenzione di compiacere i cinefili. Voglio che lo spettatore abbia la viscerale rivelazione di cosa sia il cinema nella sua più potente bellezza”. Le parole del regista non saprebbero spiegare meglio questo capolavoro per appassionati divertente ed emozionante, assolutamente non celebrativo. Ma indimenticabile.

Mauro Valentini

Riascoltando Cosa succederà alla ragazza

La rivincita poetica di Lucio Battisti contro i pregiudizi

Era il 1992, eravamo ormai lontani 12 anni dalla separazione molto travagliata con il Maestro Mogol. Lucio era, alla soglia dei 50 anni, uno sperimentatore musicale dissolto nella nebbia di Londra, delle Alpi svizzere e di Milano, lontano eppure così vicino.
E in quei 12 anni si era disgregato e ricomposto in altre forme, partendo da quella boutade che fu Eh Già , scritto con la spigolosa compagna di una vita: Grazia Letizia Veronese, per poi legarsi al paroliere più originale del panorama musicale italiano: Pasquale Panella. Con Panella scriverà il meraviglioso Don Giovanni iniziando quel percorso ermetico e spiazzante che poi proseguirà con il “Quartetto dei White Album” di cui C.S.A.R. è il terzo della serie.
Un disco che sembra l’esatto anello di congiunzione tra L’Apparenza , La Sposa Occidentale e l’ultimo Hegel ma che al contrario, sembra vivere di vita propria, condividendo con gli altri tre album dalle copertine bianche solo alcuni suoni campionati.
Sì perché a riascoltarlo ora a quasi vent’anni di distanza, le sue parole concordate con il paroliere, ma anche certe musicalità nuove, ci restituiscono questo disco nei “pezzi unici” della sua carriera interrotta da un destino maledetto pochi anni dopo.

E così Lucio nel 1991 si chiude nello studio di San West a Londra insieme a Greg Walsh, che gli aveva curato il suono fin dai tempi di Una donna per amico e con l’essenzialità dell’elettronica si circonda di soli 3 musicisti: Andy Duncan alla batteria, il tastierista Lyndon Connah dei Level 42 e il chitarrista Philip “Spike” Edney, conosciuto anche come «il quinto Queen» perché nei concerti della band britannica suonava spesso le tastiere.

Ma più che il suono essenziale che avvolge e riempie con un delicato Elettro Pop, è la voce di Lucio che regala quella inconsapevole ultima emozione, così pulita, delicata e che rimanda alle meraviglie di 25 anni prima, con quel suo falsetto che sembra uscire da uno strumento tanto è pervaso di purezza. E le melodie, quelle sono sempre perfette, la sua capacità di compositore non viene scalfita dal computer e dal campionatore; le note si rincorrono e ricorrono nell’anima di chi lo ha sempre amato, con addirittura qualche variazione Funky come ne “I sacchi della posta”.

Ma anche tanti virtuosismi letterari, in un disco che lega le canzoni quasi a un destino da Concept Album, e che impreziosiscono di delizia l’ascolto, come il richiamo al “Rinoceronte” di Ionesco e al suo teatro dell’assurdo, o alla metafora della vita che corre più che scorrere in “La metro eccetera” dove la poesia arriva pura e quasi improvvisa:
“Si fa la trigonometria nei finestrini corrispondenti agli occhi alessandrini, Di lei che guarda fissa un suo sussulto fuso nel vetro. Che le ricorda tanto un suo sussulto”.

E poi la rivoluzionaria canzone che da il titolo all’album: Cosa succede alla ragazza, più che un titolo una domanda posta a tutti e che appare come un manifesto contro lo svilimento della figura femminile; una accusa contro tutti i machismi e maschilismi che paradossalmente e ingiustamente gli erano stati etichettati dalla furia ideologica degli anni del dopo 1968, per canzoni come La Canzone della terra o Insieme a te sto bene.

Lucio Battisti

Questo non fu quindi un disco ermetico. Tutt’altro. Forse si coglie al secondo ascolto il messaggio o il senso delle sue parole ma sono parole chiarissime. “Sono sempre io!” ci grida Lucio, e a chi lo ha amato e lo ama ancora sembra ancor più esplicitarlo, qualora qualcuno non lo avesse capito, con chiarezza, specie quando nel finale della canzone chiave del disco canta, riferendosi simbolicamente alla sua musica trasposta in una figura femminile: E per lei, qualche atleta contenzioso si è battuto, smantellato da solo. Crollando coi talenti e i gusti intatti.
Sono io quella ragazza. Infatti è lei”

È vero Lucio, era la tua musica quella ragazza. Eternamente viva.

Mauro Valentini

L’album completo: https://www.youtube.com/watch?v=Zr1rCovVzGo

 

 

 

Wuthering Heights – Come nacque una stella

Quelle cime ( vocali ) tempestose di Kate Bush

“Bad dreams in the night – They told me I was going to lose the fight. Leave behind my wuthering, wuthering…Wuthering Heights”

Welling, quieta ed elegante cittadina nel Kent che si affaccia sul Tamigi a poche miglia da Londra si parlava già di quella bambina prodigio, Kate che a 5 anni già suonava il pianoforte e si diceva avesse un talento canoro fuori dal comune.

Kate Bush

Un talento poliedrico che cresce cantando e ballando, che  studia recitazione e ama il Cinema e le letture classiche. Quel libro di Emily Brontè  che ha trovato in casa nella libreria del padre l’ha rapita, quella storia tenebrosa e piena di sentimenti violenti ambientata nella brughiera dello Yorkshire non le da pace, la ispira, la intriga e in una notte d’estate del 1975 a soli 17 anni prende carta penna e un foglio di pentagramma vuoto, si siede al piano e scrive di getto una canzone che le segnerà la vita e che sarà un successo clamoroso.

Wuthering heights viene scritta così, Kate Bush la propone al vivacissimo mondo musicale londinese insieme ad altre canzoni e qualcuno la nota, qualcuno affascinato dalla sua estensione vocale fuori dal comune, quella voce sopranile che raggiunge tre ottave di estensione, qualcuno che si chiama niente di meno che David Gilmour, chitarrista e autore dei Pink Floyd che ha appena finito di registrare con il gruppo “ Animals” e che decide di produrre quel materiale straordinario di musica e parole cantate da quella voce sublime.

Per accompagnare questo talento al debutto Gilmour coinvolge un gruppo di musicisti esperti, un gruppo che in controtendenza con il periodo cerca di far sopravvivere energizzandolo con venature pop il “Progressive” britannico ormai in caduta libera, musicisti che fanno parte del “progetto di Alan Parson”.

E dunque in sala di registrazione con quella ragazzina del Kent nella primavera del 1978 ci vanno Ian Bairnson con la sua chitarra, Stuart Elliot alla batteria, David Paton al basso e Andrew Powell al sintetizzatore, tutti ad accompagnare Kate Bush che suona il pianoforte e soprattutto canta.

Il video della canzone

“Ooh! Let me have it – Let me grab your soul away…
You know it’s me–Cathy!”

Il singolo “Wuthering heights “ vola nelle classifiche di tutto il mondo, in Gran Bretagna non era mai successo che una canzone scritta e cantata da una donna arrivasse prima nelle classifiche di vendita e ci rimanesse per mesi, quell’arrangiamento perfetto e quel suono così “colto” e maturo per una ventenne fecero breccia dappertutto nel mondo scalando le classifiche americane australiane ed europee In Italia arrivò secondo al Festivalbar 1978 condotto da Vittorio Salvetti, battuta da “Liù” degli Alunni del sole (!) e precedendo Rino Gaetano con “Nuntereggae più”.

La copertina del disco del 1978

Quella struggente storia di Cathy e gli intrecci amorosi e rancorosi di quel romanzo “Cime tempestose” avranno da quell’estate del 1978 la voce di Kate Bush a ricordarlo, l’artista inglese proseguirà da quel momento una carriera incredibile, arrivando in 10 anni per 5 volte al primo posto delle vendite inglesi e scrivendo altre pagine di storia della musica pop.

Kate Bush ha centellinato una carriera fatta di pochi tour e di soli 10 dischi in più di 40 anni di carriera musicale, ma questa canzone, quelle note magiche, sono e saranno sempre il suo vestito musicale per tutta la vita.

“Out on the wiley, windy moors  – We’d roll and fall in green.
You had a temper like my jealousy – Too hot, too greedy.
How could you leave me – When I needed to possess you?
I hated you. I loved you, too”.

Mauro Valentini

 

In ricordo di Niki Lauda – Il mio racconto di RUSH

Ron Howard racconta il mito della Formula 1

Ero presente alla presentazione in prima mondiale di RUSH. 

E Ron Howard così sintetizzò in conferenza stampa la sua visione dell’eroe; sia esso un astronauta, un famoso matematico o un grande pilota di Formula 1, quello che più nel suo cinema risulta vincente è questo legame che il pubblico scopre con i personaggi, le loro debolezze e la loro “normalità” al servizio dell’eccesso e del successo.

Nei miei film racconto uomini che si trovano in situazioni particolari da esser considerati degli eroi. E attraverso le loro vite che gli spettatori scoprono i loro lati umani e si riconoscono con essi

Locandina del film

Rush” è proprio questo, il racconto di quei sei anni di vita di due straordinari piloti come James Hunt e Niki Lauda che si contesero nelle loro monoposto un primato che era molto di più di un campionato del mondo, appassionando tra commedia e tragedia non solo gli appassionati di motori ma il mondo intero.

Così diversi questi due campioni, l’Inglese Hunt, bello ed eccessivo, a contendersi la pole position a Lauda, austriaco glaciale e pragmatico, in quel fatidico campionato del 1976, da dove il film parte e arriva.

Una storia in cui i due protagonisti si sfiorano con le loro ruote a trecento all’ora, rivali anche fuori dalla pista, in un gioco di contrapposizioni che subito appassiona e rapisce.

Il contrasto tra l’eroe inglese che vive come una rockstar e l’austriaco cosi sicuro di se da pretendere di dettar legge (e di vincere) nell’officina della scuderia più famosa al mondo sono il “motore” narrativo di Howard, che confeziona un film bellissimo rimanendo in perfetto equilibrio tra racconto sportivo e avvincenti storie di amori e passioni.

Tutto è curato in maniera straordinaria dal regista, coadiuvato da uno sceneggiatore come Peter Morgan, un artista quando si tratta di narrare la cronaca esaltandone l’enfasi, come fu per il meraviglioso “The Queen” per esempio; Morgan ha curato ogni dettaglio insieme a Howard, hanno ascoltato tutto quello che Niki Lauda poteva ricordare di quell’incredibile periodo, arricchendo la sceneggiatura di aneddoti e notizie su James Hunt che nel frattempo è morto di eccessi come amava vivere.

Niki Lauda e James Hunt in una foto del 1979

E poi un tecnicismo cinematografico straordinario, con una fotografia e un colore che richiamano i film dell’epoca, la cinepresa montata sui caschi dei piloti per portare lo spettatore “dentro” la monoposto, una ricostruzione da collezionisti di quei bolidi folli e pericolosissimi e di tutto il contorno che costituiva “la scenografia” degli autodromi,dalle auto alle pubblicità dell’epoca finanche agli ombrellini delle hostess che proteggevano i piloti.

Raccontare di più della trama seppur già scritta nella storia dello sport sarebbe svelare a chi non lo conosce un epilogo emozionante di questo film che corre su un “circuito” fatto di curve e di passioni, di vittorie sotto la bandiera a scacchi e di sconfitte nella vita.

Curato dunque ogni dettaglio scenico e storico, quello che Ron Howard riesce a trasporre però è la contraddizione dell’uomo e dell’eroe che si cela in esso, le rinunce e le sconfitte in cui la vita ti fa inciampare mentre stai puntando il successo, ed è in questo continuo rincorrersi e disprezzarsi che i due protagonisti si ritroveranno imparando a sorridere degli eccessi dell’altro.

Il cast è magnifico, Chris Hemsworth è un Hunt perfetto, bello ribelle e inaccessibile nei pensieri più profondi, una prova che lo sdoganerà speriamo per lui da un certo cinema alla Marvel, mentre Daniel Bruhl ha dovuto trasfigurarsi nel vero senso della parola in Lauda, con un trucco incredibilmente realista e spietato ( chi ha potuto conoscere il vero Lauda rimarrà stupito) pur ritagliandosi una grande prova d’attore, che emerge dentro quella “copia perfetta” del volto del famoso pilota.

Bene Alexandra Maria Lara nel ruolo della “Frau Lauda”, altera e dignitosamente forte anche davanti a momenti difficili, molto bene il nostro Pier Francesco Favino, nella parte di un Clay Regazzoni sornione e intenso, che in una pausa della conferenza stampa ci dice che“ Quando sei diretto da uomo come Ron Howard beh, ogni cosa, anche quella che ti appare come difficile di colpo diventa facile, naturale

La colonna sonora di Hans Zimmer è superba, tra incalzanti melodie che quasi “rombano” insieme alla storia intervallata da una playling list da far sobbalzare di gioia anche il più sofisticato degli amanti del rock anni 70.

Un grande film dunque, una lezione di stile, di scrittura e ripresa, un capolavoro che si consegna alla storia del Cinema di sempre.

TRAILER UFFICIALE

Mauro Valentini